Francia e Germania facendo solo i loro interessi hanno creato il populismo europeo

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Il populismo è come la fortunata pubblicità di una auto della Fiat: piace alla gente che piace. Fa sfracelli in Italia con Salvini, avanza in Germania, dove i sondaggi assegnano all’Afd, partito di estrema destra tedesco, il secondo posto nei sondaggi, trionfa nell’Europa dell’Est, in Polonia, in Ungheria, e in generale lungo un arco della crisi europea che travalica le frontiere ed entra direttamente nella pancia della gente. È una sorta di maggio ’68 alla rovescia, come titolava qualche tempo fa Le Monde Diplomatique.


Da Trump a Orbàn, sulle due coste dell’Atlantico, l’ascesa dei leader conservatori e nazionalisti costringe sulla difensiva i sostenitori del progetto europeo e delle società aperte. La Germania, cuore dell’Unione – il vero motivo per cui è nata la comunità europea, cioè tenere d’occhio la Germania uscita dal Terzo Reich – vede allontanarsi due alleati strategici: l’Europa centrale conquistata dall’autoritarismo e soprattutto gli Stati Uniti di Trump, lanciati verso l’unilateralismo e le politiche dei dazi.

È la fine dell’era liberale? Più semplicemente in Europa è la fine delle politiche utilitaristiche e velleitarie di Germania e Francia che invece di perseguire una politica estera e di difesa comuni hanno fatto i loro interessi nazionali. Berlino e Parigi si erano spartiti le aree di interesse dell’Unione. Alla Germania andava la sfera dall’Europa centrale, all’Est fino ai Balcani; alla Francia il Mediterraneo, l’Europa del Sud e l’antica spinta a fare del Medio Oriente e dell’Africa del Nord una sorta di protettorato.

La Germania per l’Italia è stato in questi anni un Paese inutile: nel 2011 ha dichiarato la sua neutralità sulla Libia, legittima quanto si vuole che però ha lasciato il nostro Paese in balìa della Francia di Sarkozy, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Dal punto di vista della geopolitica la Germania, che negli anni ’90 aveva fomentato la separazione della Croazia dalla Jugoslavia, si è dimostrata in questo decennio una nullità, dall’Ucraina al Medio Oriente. Salvo spingere l’Unione a pagare 6 miliardi di euro la Turchia di Erdogan per trattenere due milioni e mezzo di profughi.

I cari vecchi colonialisti francesi sembravano risorti a nuova vita nel 2011, quando, dopo avere perso la Tunisia dei Ben Alì, si erano lanciati a bombardare la Libia di Gheddafi. Per poi unirsi agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e ai Paesi del Golfo, come Arabia Saudita e Qatar, nell’impresa di abbattere il regime di Bashar al Assad in Siria. Sappiamo come è andata a finire con l’intervento dell’Iran e poi di Putin nel 2015: è stato con un match di calcio tra dilettanti e professionisti.

Dalla Siria, per di più, sono arrivati il terrorismo jihadista e milioni di profughi, quanto alla Libia siamo di fronte a un disastro ancora peggiore della guerra in Iraq degli americani nel 2003, che già sembrava un danno irripetibile.

La Libia post-Gheddafi, abbandonata al suo destino, ha cambiato i dati politici del Mediterraneo e del Sahel: l’ondata dei profughi dall’Africa, di cui il Colonnello era il guardiano, hanno invaso le sponde italiane. L’Italia ha subito la peggiore debàcle della sua storia dalla seconda guerra mondiale. Non solo ha perso 50 miliardi di euro di commesse ma l’afflusso dei migranti ha mutato drasticamente il quadro politico di un Paese che per decenni era stato il fedele cameriere della Nato e un grande contributore dell’Unione europea. Dalle umiliazioni, soprattutto a costi così alti, non nascono buone cose.

Macron e la Merkel si sono dimostrati inadeguati ad affrontare la situazione, La cancelliera tedesca è un leader impaurito, messo sotto pressione dal suo stesso ministro degli Interni, il bavarese Seehofer, mentre Macron è un presidente imbevuto di grandeur. A fine maggio ha convocato un vertice sulla Libia a Parigi – destinato in pratica ad annettere alla Francia la Cirenaica del generale Khalifa Haftar – senza minimamente sollevare la questione delle ondate dei migranti verso le sponde italiane. Parliamo di tre settimane fa, non di un secolo.

Il populismo sta dilagando perché la sua strada è stata spianata dai governi europei. Gli ultimi esecutivi italiani, fatta eccezione per l’ex ministro degli Interni Minniti, hanno continuato a ripetere giorno dopo giorno nobili dichiarazioni di principio lasciando che i populisti facessero leva sui sentimenti profondi della gente, giusti o sbagliati che fossero, che percepiva i migranti come un’invasione.

Così oggi abbiamo due vertici europei: uno dei “buoni”, o che si ritengono tali, e uno dei “cattivi”, del gruppo di Visegrad e dei partiti sovranisti, che esprimono una sorta di contro-modello europeo, per la verità non troppo originale, quello di un’Europa delle nazioni.

In realtà “buoni e cattivi” aprono la via a Trump che intende dividere l’Unione europea e mettere sotto pressione l’euro, un fastidioso concorrente del dollaro sui mercati finanziari. Il risultato è che l’Europa si disfa e tra un po’ torneremo “a regolare i conti in sospeso della seconda guerra mondiale”, come anni fa, durante la disgregazione della Jugoslavia, mi disse a Belgrado Milovan Gilas, il compagno del Maresciallo Tito e l’autore di “Conversazioni con Stalin”. L’Europa unita rischia di tornare dove è nata.

di Alberto Negri, da Linkiesta.it