Fuga da quale città? Agorà. La Filosofia in Piazza: come ripensare gli spazi pubblici dopo la pandemia

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Fuga dalla città
Fuga dalla città

In una sua intervista, Antonello Petrillo, professore di Sociologia presso la Facoltà “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, ha registrato un’accelerazione nel fenomeno di migrazione dalla città.

Già da molti anni, nel mondo, si registravano le famose gated comunity, ovvero interi quartieri residenziali staccati dalle città e completamente recintati e sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro. Si tratta, infatti, di una retorica della sicurezza che tenta di delimitare la comunità urbana all’interno di recinzioni e muri, in grado di auto sostenersi.

Le gated comunity sono provviste di ogni tipo di servizio e costantemente monitorate all’ingresso e all’uscita. Tuttavia, questa accelerazione delle migrazioni dalla città non riguarda semplicemente la costruzione di nuovi quartieri sterili e ipersicuri. Si tratta, invece, di una migrazione nelle campagne e nei piccoli paesi.

Secondo Petrillo, l’epidemia da Covid-19 ci ha dimostrato che si può vivere benissimo anche fuori dal perimetro urbano e sbrigare le proprie faccende e i propri lavori semplicemente stando seduti dinanzi ad un computer.

Riunioni, lavori di gruppo, lezioni, prenotazioni di pranzo o cena, visione di film, organizzazione di eventi, tutto si può fare in uno spazio che non è più quello urbano, ma quello domestico. Ed anche coloro che sembrano più recalcitranti all’utilizzo della tecnologia per gli incontri, preferendo la presenza all’online, prima o poi si abituano all’utilizzo dei social e alla comodità di avere tutto a portata di mano. Allora ecco la migrazione dalla città alla campagna.

Lo spazio contingentato della vita privata si dilata, mentre lo spazio della vita pubblica diminuisce e si trasferisce nel virtuale. La fenomenologia sociale del trasferirsi fuori dalla città ha questo paradigma che la sostiene e la struttura. La comodità delle interconnessioni, la facilità dei risultati e l’economia del tempo lavorativo, la possibilità di incontri anche a chilometri di distanza, spingono a cercare una maggiore tranquillità nell’abitare, lontano dal tumulto, dall’inquinamento, dal rumore delle città.

Questo trasferimento riguarda, poi, anche le decisioni politiche ed economiche, dal momento che i maggiori investimenti non si fanno più nel tessuto locale, ma nelle pizze globali e questo si manifesta in varie modalità: dalla chiusura delle piccole e medie imprese, dalla difficoltà di sopravvivenza del negozio sotto casa, fino al dibattito politico fatto ormai di discussioni, spesso volgari e offensive, sui social.

Tutto sembra concorrere alla fuoriuscita dalla città, alla ricerca di uno spazio fatto di silenzio e nuovo equilibrio con la natura, mentre le città rimangono solo e soltanto delle grosse hub di scambio economico, dove arrivano prodotti per essere consumati. Tuttavia, se volessimo dare una risposta a questo fenomeno, certamente non potremmo vederlo nella banalità di una morale del giusto e dello sbagliato. Non si tratta di giudicare un paradigma che sta prendendo sempre più piede, ma cercare di porre nuovamente in essere le domande sulla città.

Che senso ha oggi vivere in città? Che cosa è la città? Qual è la funzione politica di una città? Come può una città, oggi, generare comunità?

Queste sono le domande che la filosofia ha bisogno di porsi, perché sono le domande sull’essere umano in situazione e, in particolare, sull’essere umano urbano. Se ha ancora senso chiamarlo così.


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a cura di Michele Lucivero

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