Qualche giorno fa il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, reintroducendo il concetto delle gabbie salariali, ha dichiarato: “È chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso“.
Ieri Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, ha affermato (fonte rainews): “I costi per le imprese sono aumentati per garantire sicurezza e l’occupazione non ha avuto grossi choc perché c’è stato il blocco dei licenziamenti. Il problema si avrà quando terminerà il blocco licenziamenti, avremo un contraccolpo verso l’autunno“.
E poi: “Non ci faremo intimorire dalle minacce che qualche infame ha fatto proprio a proposito della nostra industria. Gli imprenditori chiedono di avere delle certezze per il futuro. Le previsioni che noi abbiamo e che fino alla seconda metà del 2021 non riusciremo a recuperare il gap rispetto al periodo pre-covid. Ma l’industria da sola non può farcela e serve uno sforzo comune insieme a tutti gli attori della produzione, della finanza e delle rappresentanze. Bisogna trovare delle soluzioni condivise per far ripartire il nostro sistema produttivo. Ancora una volta l’impresa e il lavoro sono centrali per far ripartire la Lombardia. Se la Lombardia non riparte resterà ferma anche l’Italia“.
A nome di Confindustria Lombardia Bonometti “chiede”, quindi, al governo (ma sembra più che altro un ultimatum): “di rivedere i contratti di lavoro che devono essere improntati sulla produttività e flessibilità. Va cancellato il decreto dignità e vanno reinseriti i contratti a termine perché in questa fase difficile è importante cercare di mantenere alta l’occupazione” e dice “abbiamo chiesto che partano le grandi opere, di detassare il detassabile, la riduzione del cuneo fiscale, la valorizzazione dei prodotti italiani per ridare stimolo al mercato interno. Industria 4.0 deve essere concentrata sulla formazione“”.
E, sempre ieri, Sala ha insistito sul concetto delle gabbie salariali, di stabilire, cioè, retribuzioni diverse tra nord e sud del paese come riportato da varie fonti: “Di pubblico non si può discutere. Se si ipotizza una riforma delle regole, c’è l’alzata di scudi“. In pratica, il sindaco di Milano, auspica la reintroduzione delle vecchie gabbie salariali.
Le varie dichiarazioni potrebbero venire considerate di buon senso ma c’è qualcosa che stride rispetto a certi valori e principi che dovrebbero essere quelli della società avanzata e civile.
Quel qualcosa è, sostanzialmente, “da dove si parte” per modificare le regole. Ecco, sia Bonometti sia Sala partono dal concetto che i diritti di chi lavora sono un costo e che si può e si deve ridimensionarli.
Su quanto afferma Sala sarebbe da ricordargli che “a parità di mansione deve corrispondere parità di salario” a prescindere dal luogo dove viene svolto il lavoro e da chi lo svolge. E bisognerebbe ricordargli anche che, se può essere vero che il costo della vita tra Milano e Reggio Calabria è diverso, è altrettanto vero che anche i servizi offerti ai lavoratori sono spesso differenti (in qualità e quantità) come il potere di acquisto, la povertà, la possibilità di trovare lavoro.
Non si domanda, Sala, che, forse, il costo della vita sbagliato è quello di Milano? E non gli sorge il dubbio che comunque e in entrambi gli esempi che lui cita, le retribuzioni sono basse? E che, forse, sarebbe bene ripensare a una politica fiscale più equa e che, invece di abbassare i salari di chi lavora in una parte del paese (come si evince dalla sua dichiarazione) sarebbe più normale e giusto rivalersi sulle grandi ricchezze e gli enormi profitti di una minoranza di italiani?
Per inciso segnaliamo l’articolo Ansa “Milionari per l’umanità, appello dei paperoni del mondo: “fateci pagare più tasse” in cui è significativa la frase nella quale si dice che i milionari che vogliono pagare più tasse in modo sostanziale e permanente “sono inglesi, americani, canadesi, tedeschi perlopiù i firmatari dell’appello (nessun italiano per ora)“.
La questione del profitto e delle grandi ricchezze di una esigua minoranza di “fortunati”, così come quella dell’evasione fiscale, non vengono minimamente toccati in Italia da Bonometti (e, quindi, da Confindustria). Certo, lui fa gli interessi di chi rappresenta, ma sarebbe giusto anche porsi la domanda se questi interessi sono compatibili con la situazione attuale e con la crescente povertà di milioni di cittadini. Invece che dichiarare l’impegno dell’associazione della quale è presidente nel far “pagare le tasse” a tutti, Bonometti chiede di “detassare il detassabile”. Invece di garantire un lavoro sicuro, continuativo e giustamente retribuito, chiede maggiore flessibilità e possibilità di licenziare.
In poche parole una maggiore precarietà per chi lavora. Confindustria Lombardia chiede anche che “partano le grandi opere” spesso poco utili e costosissime (oltre che, frequentemente, “fabbriche di corruzione”). Infine, come si capisce, da certe sue affermazioni “garantire la sicurezza” nei luoghi di lavoro è un costo che è aumentato.
Dice, Bonometti, che è importante cercare di mantenere alta l’occupazione. Bene ma quale e come? Una occupazione frammentata, flessibile (cioè precaria), a basso costo è qualcosa che non garantisce futuro alle lavoratrici e ai lavoratori e anche al paese nel suo complesso. Forse garantisce maggiori profitti a chi è già ricco. E questo accumulo di ricchezza, anche se considerato ovvio in questa epoca nella quale impera il “realismo capitalista”, ha poco di giusto e normale.
In definitiva Sala e Bonometti hanno una visione simile delle cose. Entrambi considerano l’impresa il motore di tutto, il privato migliore del pubblico. Il lavoro viene considerato una conseguenza del benessere dell’impresa. Diventa qualcosa di astratto, un sostantivo utilizzato per darsi una parvenza di democraticità.
Il lavoro, invece, è qualcosa di concreto fatto da milioni di persone, donne e uomini, spesso per pochi denari e molta fatica. Ed è da loro, dal loro diritto alla sicurezza, al riposo, a una giusta retribuzione che bisogna ripartire. È la loro vita la priorità del paese. L’eventuale profitto personale di lorsignori è in secondo piano. Non può essere l’unico obiettivo com’è oggi.
Questo significa trasformare il modello di sviluppo? Significa che si può e si deve lavorare meno, meglio e tutti? Significa che la tecnologia, l’informatica, la robotica devono essere indirizzate ad alleviare la fatica di chi lavora e rendere la burocrazia non un intralcio ma uno strumento al servizio dei cittadini? Vuol dire, forse, attuare una vera e propria rivoluzione? Certo, cambiare il sistema lo è. Cominciamo a pensarci.
Giorgio Langella – Dennis Vincent Klapwijk
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