Ventinove giorni dall’inizio di Ramadan. Un paio d’ore tra un ultimatum e l’altro, il primo per le 18 ore locali, l’altro con scadenza alle 21. Pochi minuti per la risposta dell’aviazione che ha bombardato Gaza dopo i lanci di 7 razzi verso Gerusalemme e decine sulle città nel Sud del Paese.
Gli scontri tra la polizia israeliana e i palestinesi si sono trasformati in conflitto aperto: Hamas aveva annunciato il sostegno alle proteste, ha minacciato di accendere le micce se gli agenti non si fossero ritirati dalla Spianata delle Moschee e gli arrestati fossero stati liberati. Ha mantenuto le promesse guerresche: le sirene sono risuonate anche nei sobborghi attorno a Gerusalemme per la prima volta dai 59 giorni di battaglia nell’estate del 2014. Il sistema di difesa Cupola di ferro ha intercettato solo 2 razzi, uno è riuscito a colpire un edificio senza causare vittime. Negli stessi momenti un commando palestinese ha centrato con un missile anticarro un’auto dall’altra parte del reticolato. I jet hanno bersagliato la Striscia, le aree verso la barriera che divide il corridoio di sabbia da Israele: i morti palestinesi sono già una ventina, tra loro anche 3 bambini. Lo Stato Maggiore ha interrotto un’ingente esercitazione che sarebbe dovuta durare una settimana e ha convogliato le truppe verso sud. Il consiglio di sicurezza del governo avverte che le operazioni militari potrebbero durare giorni e «non ci limiteremo a bombardare qualche duna di sabbia».
I capi di Hamas, che dal 2007 spadroneggiano su due milioni di palestinesi chiusi nella Striscia, hanno questa volta rivendicato tutte le operazioni. È il segnale che per ora non vogliono ridurre la tensione: in passato il ritorno alla calma era stato favorito dalla scusa (per tutti) di accusare qualche fazione fuori controllo. A Gerusalemme gli scontri sono cominciati quasi un mese fa, quando la polizia ha deciso di circondare la piazzetta davanti alla porta di Damasco con delle barriere di metallo, impossibile arrivarci o sedersi. I comandanti volevano evitare che quel luogo di incontro fuori dalle mura diventasse un punto per organizzare le proteste. Adesso che nessuno sembra in grado di controllare la violenza, gli analisti fanno notare che ai vertici della polizia nazionale e del distretto che controlla la città ci sono due nuovi ufficiali e forse piazzare le transenne durante il Ramadan e dopo un anno di limitazioni imposte dalla pandemia non è stata una buona mossa.
Il governo di Benjamin Netanyahu ha cercato di ridurre le cause di attrito, le barriere rimosse. La Corte Suprema ha anche rinviato la decisione sul possibile sfratto — altro movente per le manifestazioni di queste settimane — di una ventina di famiglie che vivono nelle zone di Sheikh Jarrah e Silwan dopo che alcune organizzazioni di coloni oltranzisti hanno ottenuto dal tribunale la conferma del diritto di proprietà sugli edifici: appartenevano a ebrei prima della nascita dello Stato d’Israele nel 1948, i palestinesi ci abitano da almeno sessant’anni. Non è bastato. Hamas vede un’opportunità per sfruttare la rabbia palestinese e vuol mettere in difficoltà il presidente Abu Mazen che ha cancellato le elezioni parlamentari. I boss fondamentalisti rischiano di aver sovrastimato il disordine politico in Israele (senza un governo stabile da oltre 2 anni) e sottostimato la volontà di Netanyahu di riprendersi il titolo di Mr Sicurezza: «Hamas ha varcato una linea rossa, pagherà un prezzo molto duro».