Lo scorso 18 marzo, in occasione della giornata mondiale del riciclo, molti media italiani hanno riportato una notizia sorprendente. Secondo il rapporto Greenitaly 2020 della fondazione Symbola, siamo primi in Europa per rifiuti riciclati pro-capite, con il 79% degli scarti complessivi. In realtà, entusiasmo a parte, i dati Ispra parlano di una realtà diversa, che ci colloca molto più in basso nella classifica e che evidenzia le criticità che riguardano ancora la raccolta differenziata, dall’effettiva gestione dei rifiuti all’urgenza di diminuire la quantità di quei 500 chili annui che produciamo pro capite.
Di questa quantità solo il 29% viene avviato agli impianti di recupero di materia, mentre il 2% viene esportato, il 21% finisce in discarica e il 18% incenerito; una soluzione non ottimale, dato che, specialmente negli impianti meno avanzati, l’incenerimento libera tossine e grandi quantità di nano e microparticelle nell’aria o nelle falde acquifere, fino a raggiungere il mare. Su quel terzo scarso dei rifiuti totali avviati agli impianti di recupero è calcolato il 79% di rifiuti davvero riciclati. Non proprio cifre esaltanti, tanto che non centrano gli obiettivi: quelli del 2012 (fissati al 65%) sono stati superati nel 2019 solo dalle regioni del Nord Italia, mentre l’Unione europea punta al 55% entro il 2025. L’Ispra sottolinea infatti l’urgenza di migliorare il sistema: “Lo smaltimento in discarica nei prossimi 15 anni dovrà essere dimezzato, la percentuale di rifiuti che vengono avviati a operazioni di recupero di materia dovrà essere notevolmente incrementata”.
Difficilmente le cose sono migliorate l’anno scorso, quando il lockdown totale ha imposto anche il blocco degli impianti di trattamento per il riciclo: diverse amministrazioni locali, infatti, hanno limitato il servizio di raccolta differenziata e chiuso gli impianti temporaneamente per contenere il contagio. I rifiuti domestici – al contrario di quelli industriali, calati per effetto del blocco della produzione di diverse filiere – intanto, continuavano ad arrivare in abbondanza, anche grazie al boom di acquisti su internet e di cibo da asporto; negli Stati Uniti, per esempio, il consumo di plastica monouso sarebbe aumentato del 250-300% rispetto all’epoca pre-Covid, una percentuale in cui il grosso è rappresentato dagli imballaggi di commercio online e cibo da asporto. Mentre i negozi abbassavano le serrande, le ricerche su Amazon sono aumentate del 65%.
Un’indagine Ipsos rivela però che circa il 70% degli acquirenti italiani ritiene (e predilige) un prodotto sostenibile innanzitutto se il suo imballaggio è riciclabile o fatto con materiale riciclato. Purtroppo anche questa opinione può essere sfruttata in malafede con un marketing aziendale basato sul greenwashing che ci fa giudicare ecologiche delle bottiglie in plastica che contengono in realtà solo piccole percentuali di materiale riciclato. Per averne una misura basti pensare che PepsiCo si è impegnata a portare al 25% entro il 2025 il materiale riciclato dei suoi involucri di plastica.
Il problema dei rifiuti, ovviamente, non riguarda solo le bottiglie di plastica: anche alluminio e vetro hanno una loro impronta ecologica e, una volta dispersi nell’ambiente, vi restano per centinaia di anni rilasciando sostanze nocive nell’ecosistema. L’alluminio, impiegato per lo più nell’industria e nei trasporti, a livello domestico è presente soprattutto in forma di lattine. Il minerale di partenza, la bauxite, è estratto in miniere impattanti e processato producendo residui altamente inquinanti, a cui si aggiungono le emissioni nocive della produzione. Fortunatamente sia alluminio che vetro – quest’ultimo prodotto con alcuni tipi di sabbia, la cui estrazione provoca consumo ed erosione di suolo, da sommare all’impatto ambientale delle emissioni di produzione –, che pure non sono completamente recuperati, possono essere riusati all’infinito attraverso un riciclo che richiede solo una minima frazione di energia rispetto a quella necessaria per produrne da zero.
Lo stesso non vale per la plastica, con le problematiche ormai note a molti: dal 1950 al mondo ne sono stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate, di cui oltre 6 miliardi oggi sono rifiuti, riciclati solo per il 9% del totale. Anche auspicando un miglioramento delle tecniche di recupero, non possiamo ignorare che la plastica che finisce nell’ambiente ci resta per sempre, arrivando nell’acqua che beviamo – tanto del rubinetto quanto della bottiglia – e persino nella placenta delle donne incinte. Il problema ha più declinazioni: da un lato la plastica dispersa nell’ambiente, compresa quella bruciata, è dannosa per la salute degli esseri umani e di tutto l’ecosistema, dall’altro nuovi oggetti in plastica ne possono contenere solo una piccola parte riciclata: il meccanismo distruttivo, così, continua a rinnovarsi. Inoltre, la produzione di nuova plastica alimenta l’industria del petrolio, altro settore ambientalmente devastante.
Anche la bioplastica su cui si sta investendo molto negli ultimi anni è una soluzione temporanea, ma non può essere quella definitiva: è prodotta a partire da colture che devono essere fertilizzate e poi processate impiegando energia. Inoltre, quella al 100% vegetale andrebbe smaltita tramite compostaggio in apposite infrastrutture, e non in discarica dove finisce in buona parte dei casi e dove, a causa dell’assenza di terra e ossigeno, ha un ciclo vitale simile a quello della plastica. In questo senso non convince completamente la messa al bando europea della plastica monouso che, per quanto positiva, non mette al riparo da alcune criticità; è di gennaio la notizia, per esempio, che piatti e bicchieri di carta non sarebbero in realtà compostabili perché il film impermeabilizzante che li riveste sarebbe inquinante. Il problema, cioè, non sta tanto – o non solo – nella plastica in sé e per sé, ma nell’idea stessa di usa e getta.
I consumatori, infatti, potrebbero essere persuasi a comprare a cuor leggero beni monouso, anche se non davvero necessari, perché presentati come un’opzione green. La soluzione migliore sarebbe invece comprare meno. Oltre a migliorare le tecniche di recupero e riciclo, gli sforzi devono essere tesi a diminuire la quantità stessa di rifiuti prodotti. Per farlo, responsabilizzare i cittadini è fondamentale, ma solo a patto di dar loro gli strumenti per fare acquisti consapevoli, perché più informati sulle loro responsabilità. È urgente che prenda sempre più piede una mentalità che abbandoni l’usa e getta in favore del riuso. La nuova normativa europea che obbliga le aziende di elettrodomestici ed elettronica a mettere a disposizione pezzi di ricambio per ridurre l’obsolescenza programmata sembra un passo avanti in questa direzione, sperando faccia parte di una strategia dal respiro più ampio. Una nota positiva è però l’attenzione data al ruolo dei produttori: la responsabilità – che secondo la normativa italiana deve essere condivisa da tutti gli attori coinvolti – non può ricadere interamente sui cittadini, che sono chiamati a tenersi aggiornati costantemente su troppi dati e sui modi in cui interpretarli e applicarli correttamente, con il risultato di un carico, anche psicologico, che può spingere molti a rinunciare all’impegno. Non sono i singoli a poter imporre processi produttivi che facilitino il recupero di materiale, packaging minimo e tasse sui prodotti più inquinanti: ecco perché è indispensabile che sia il potere politico ed economico a cambiare un sistema che non è più sostenibile.
La pandemia ha mostrato con ancora maggiore chiarezza tutti i problemi del nostro rapporto con i rifiuti, che va ripensato completamente attraverso un’assunzione di responsabilità dei cittadini ma soprattutto dei decisori politici. Sono i legislatori a dover imporre criteri economici per costringere le aziende ad adeguarsi alle necessità ambientali. Anche da questo punto di vista la pandemia rappresenta un ostacolo, perché ha fatto crollare il prezzo del petrolio, rendendo ancora più economico produrre nuova plastica. Tutti questi fattori dovranno essere i primi a essere tenuti in considerazione nei mesi che daranno il via alla ripresa economica e nelle strategie per guidarla. Noi cittadini, intanto, dobbiamo chiedere ai nostri rappresentanti politici la stessa sensibilità ecologica e impegno che impieghiamo ogni giorno nel nostro piccolo per fare la raccolta differenziata e ridurre l’impatto personale che abbiamo sul Pianeta.