Gianni Zonin, Renzo Mazzaro: da Banca Agricola di Lonigo fino a Banca Popolare di Vicenza per poi donare tutto a moglie e figli

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«Schéi e amicissia orba la giustissia». Lo ripeteva sempre Domenico Zonin, lo zio preferito del cavalier Gianni, fondatore della casa vinicola di Gambellara. E Gianni Zonin non l’ha mai dimenticato. È lui stesso che lo racconta in una specie di saga della famiglia Zonin, messa nero su bianco da Curzio Levante, scrittore di notte, si suppone, visto che di giorno faceva il direttore della Banca Agricola di Lonigo, agenzia di Montebello. L’ha fatto per una vita ed era sempre in lite con la direzione generale di Lonigo, per via dei crediti eccedenti e gli sconfinamenti quotidiani che consentiva agli Zonin.

Nel 1980 l’azienda di Gambellara che commercializzava bottiglie di vino con tappo a corona era fuori per oltre un miliardo di lire. Al punto che gli Zonin, nel gennaio di quell’anno, vengono segnalati alla vigilanza della Banca d’Italia, assieme ad un’altra azienda vicentina, la Fai spa di Giovanni Bettanin, macchine movimento terra.

Occhio ai nomi e ai ruoli: Bettanin è vicepresidente della banca; con lui nel cda siede Gaetano Zonin, fratello di Gianni e imparentato con il Levante di cui sopra (ha sposato una nipote), oltre ad essere subentrato allo zio Domenico, che era stato consigliere della banca per decenni. Chiaro che si davano i soldi con manica larga, inutilmente osteggiati dal direttore generale Enea Dell’Angelo e dal presidente Enrico Dalla Grana. Finché si rompono le scatole di questa opposizione e li fanno fuori: Dalla Grana viene destituito da un cda convocato irregolarmente e la presidenza della banca va a Bettanin. C’è una sollevazione generale, proteste dei sindacati, esposti alla magistratura. La Banca d’Italia resta a guardare (copione già visto) e solo anni dopo la Corte d’Appello di Venezia dichiara illegittimo il ribaltone.

Peschiamo questa ricostruzione dalla rivista “Quaderni Vicentini” diretta da Pino Dato, nella quale un informatissimo autore che si firma Gordon Gekko (dal personaggio del film Wall Street impersonato da Michael Douglas) racconta per filo e per segno la resistibile scalata finanziaria del cavalier Zonin.

Contro di lui gli oppositori hanno sempre ragione, ma le sentenze arrivano fuori tempo massimo, quando non servono più. È uno schema fisso, che si ripete. Dopo la Banca Agricola di Lonigo tocca al ricorso contro l’assemblea di Bpvi del 1996: le nomine fatte in quella circostanza vengono dichiarate illegittime in primo, secondo e terzo grado. Ma la sentenza della Cassazione arriva nel 2008, significava annullare 12 anni di attività della banca: improponibile.

Non parliamo del caso di Cecilia Carreri, il gup di Vicenza che già nel 2002 aveva inquisito Gianni Zonin per la vicenda della società Querciola (il palazzo Bnl a Venezia fatto acquistare al fratello), per il finanziamento alla società Acta di Gambellara (16 miliardi di lire dal Mediocredito con contropartita onerosa per Bpvi) e per il falso in bilancio sui derivati finanziari Barclays (57 miliardi di lire certificati dal consulente tecnico della procura Marco Villani, smentito dal capo della stessa procura Antonio Fojadelli).

Vicenza archiviò due volte, per due volte la procura generale di Venezia interpose appello, chiedendo il rinvio a giudizio. Ma non se ne fece nulla. A pagare fu solo Cecilia Carreri, costretta a dimettersi dalla magistratura, mentre Fojadelli, ormai in pensione, dichiarava l’anno scorso: «Ero e resto amico di Zonin». E la legittima suspicione?

«Hanno fatto evaporare miliardi, dato credito a man bassa agli amici mettendo le mani in tasca ai clienti e sono liberi», è capitato di dire a Fabrizio Viola, che da commissario di Bpvi ha promosso azione di responsabilità contro Zonin e gli altri ex amministratori.

Naturalmente Zonin non è stato a guardare: ha citato a sua volta la banca, dichiarandosi vittima né più né meno dei risparmiatori; soprattutto ha messo al riparo i beni passandoli alla moglie e ai tre figli (valore dichiarato sulla carta delle aziende di famiglia 12, 5 milioni di euro).

La magistratura, per quanto in ritardo, ha avviato un sequestro cautelativo di 1,7 milioni di euro per coprire le spese di giustizia (Cicero pro domo sua) e adesso autorizza gli avvocati dei risparmiatori a procedere a sequestri fino a 200 milioni di euro, rivalendosi anche su beni di mogli e figli.

Vuoi vedere che gira il vento anche per la “giustissia” dello zio Domenico buonanima? Difficile, finché non verrà dichiarato lo stato di insolvenza della Popolare di Vicenza, che al momento è stato richiesto da un gruppo di risparmiatori, ma non ancora dalla Procura. Solo questo renderebbe possibile procedere per i reati fallimentari a carico degli ex amministratori. L’iniziativa toccava alla Procura di Vicenza e i pm Luigi Salvadori e Gianni Pipeschi hanno detto che ci stanno lavorando. La richiesta poteva venire anche da creditori importanti, per esempio un’altra banca. Utopistico solo pensarlo.

I legali di Zonin faranno opposizione. Magari il cavaliere di Gambellara, per dimostrare la sua buonafede, rifarà al processo il discorso della “musina”, la banca come un salvadanaio dove i veneti mettono i risparmi, lui per primo. Solo che la “musina” si è rotta e dentro non c’era nulla.

di Renzo Mazzaro, da Il Corriere delle Alpi Il Mattino di Padova