Il rischio supremo, quasi ineluttabile, corso dalla nostra società globalizzata, definita con precisione chirurgica liquida (Baumann) o dominata da tre o quattro algoritmi fatali (Harari) è, comunque la si voglia leggere, quello di non essere più in grado di capire, dei propri eventi, le vere ragioni. Oppure, se le ragioni le trova, non sapersene capacitare secondo un’etica accettabile erga omnes. È una specie di determinismo alla rovescia. Siamo in grado di risalire alla formula fatale (algoritmo) ma quando arriviamo all’origine del misfatto siamo al punto di prima.
La giro in un altro modo: se anche le ragioni le troviamo, ci ritroviamo sempre più ansiosi: ritrovare, ad esempio, le ragioni di un misfatto terribile non ci consente di eliminarne né la causa né l’effetto a venire. Sappiamo perché, ma siamo impotenti a modificarne l’algoritmo fatale.
Per dirla con Baumann, non solo la società è liquida, anche la morale lo è.
Sintesi: l’unica vera consolazione, comunque, è la consapevolezza che sapere è meglio di non sapere.
Premessa lunghissima per parlare di un film visto alla Mostra veneziana ieri? Forse sì ma non in linea di principio. La grande qualità della mostra veneziana è quella di consentire indagini non approssimative sullo stato del mondo. Attraverso il cinema di paesi diversi e lontani si percepisce talvolta, se non spesso, il livello delle condizioni politiche, sociali, etiche delle corrispondenti società. Stare alla Mostra una settimana e saltare da una sala all’altra ti offre un assedio di messaggi, mondi, paesi, lingue, società. Il cinema è di fatto un occhio impegnato sugli affari, i delitti, le virtù (rare) di questo mondo globalizzato ma profondamente diverso: non è più concepibile il cinema di evasione. La realtà del resto è così varia e complessa che, in ogni caso, la noia è bandita.
In Giants Being Lonely, del giovane americano Grear Patterson, la solo apparente tranquillità della società Usa odierna, l’America della media borghesia, con i figli che escono dalle scuole superiori e vanno all’università, madre e padre nell’età giusta per vivere la crisi forse decisiva della loro unione, con lo sport di mezzo, lo sport di oggi, con tutti i fanatismi che si trascina anche nelle serie più innocue – il baseball nel caso – è uno spezzato ideale per far emergere, attraverso la vicenda raccontata le contraddizioni, i conflitti, le negatività di una società che spesso e volentieri sfociano in tragedia.
Siamo in un piccolo centro della Carolina del Nord. Da come vestono, da come parlano, da come bevono, tutti i personaggi vivono una vita ricca di consumi, mode, rimandi, amicizie. Tutto bene in apparenza. Lo sport prediletto dalla piccola comunità è il baseball. Adam è un giovane alle soglie del salto più bello nella vita, il passaggio agli studi superiori, che gli aprirà, si presume, le porte del mondo che conta. Intanto gioca a baseball ed è il migliore, il più richiesto, ha la battuta più imprendibile. Un piccolo dio di provincia. Il baseball lo distrae anche dal sesso, che è lì ad attenderlo, con le forme suadenti della bella ma insoddisfatta Caroline. Il padre di Adam è allenatore feroce, che carica i suoi ragazzi come farebbe un sergente di una compagnia del Vietnam. È violento di modi con i giocatori in erba e con il bravo figlio a casa. La moglie è sottomessa. Si rifà una vita “vergine” tradendolo con l’amico di Adam, Bobby.
Il contesto, ci dice il giovane regista, è quello della società americana più ovvia, che sposa senza riflettere i miti della prevalenza, senza curarsi che possa diventare prevaricazione. Nessuno ferma nessuno. I limiti sono avbondantemente superati. Avete presente la cronaca americana dei figli di papà che vanno al campus e fanno una strage? Non siamo a quei livelli, ma la strada etica è quella. Il padre è un pessimo allenatore, un pessimo marito, un pessimo padre. Se vogliamo, il tutto è semplicistico. Ma siamo nel campo del reale, purtroppo. Come dicevo all’inizio, conosciamo l’ignobile algoritmo che determina tutto ciò ma conosciamo e basta: siamo impotenti.
Non rivelerò nei dettagli il finale per non rovinare la sorpresa a chi mi legge. Il film non è ancora pronto per essere distribuito in Italia ma lo sarà. La regia è eccellente, le immagini curate. Lo stile ricorda quello del grande autore dell’Albero della Vita.
Il bravo regista, giovanissimo e già consapevole, ha detto: “La vita è infelicità e non so quando può arrivare la morte. Intanto giochiamo a baseball.” Magnifico.