Il Giardino incantato di Bentivegna a Sciacca, un luogo suggestivo e mistico

2006
Giardino Castello incantato di Bentivegna
Giardino Castello incantato di Bentivegna

La necessità di avviare un nuovo rapporto con la bellezza della natura, anche alla luce delle profonde considerazioni filosofiche e mistiche avviate con la giornata del giardini aperti del 4 giugno, ci ha condotto ad esplorare concretamente alcuni giardini italiani che nascondono interessanti segreti e misteri, a partire dal Giardino o Castello incantato di Filippo Bentivegna, in Sicilia.

Ci troviamo ai piedi del Monte Kronio, la dimora del dio del tempo (Chronos, appunto, Χρόνος in greco) nella città di Sciacca, in provincia di Agrigento. In realtà, a dispetto del nome, non si tratta affatto di un monte, ma di una collina di appena 395 m.s.l.m. Qui il pazzo psichiatrico Sua Eccellenza Filippo Bentivegna, così voleva essere chiamato, trasformò intorno alla prima metà del Novecento un podere di famiglia in un luogo incredibilmente significativo e suggestivo, che venne poi chiamato Giardino o Castello incantato.

La storia di Fabrizio Bentivegna ha davvero qualcosa si surreale, forse non è altro che una storia come tante dei primi anni del Novecento, una storia di disagio e di povertà, ma che, grazie a fortuite circostanze, ha liberato sorprendentemente l’estro e il talento di chi era destinato a diventare solo l’ennesimo emarginato, uno dei tanti scarti umani che la nostra società produce nella sua frenetica e razionale meccanica della produzione, come acutamente evidenzia Matteo Losapio nel suo Dèi respinti. Metafisica degli scarti[1].

Bentivegna, come tanti italiani, era emigrato da piccolo con la sua famiglia in cerca di fortuna in America, ben prima che scoppiasse la Grande Guerra. Un giorno, forse per una diatriba d’amore, si ritrovò coinvolto in una rissa, durante la quale prese una bastonata sulla testa che lo rintontì completamente, ma che gli aprì un nuovo orizzonte di comprensione dell’esistenza.

Ora, gli americani dei primi del Novecento, grande popolo con il mito del lavoro, ma incapace di guardare oltre il profitto, erano lontani anni luce dall’educazione alla bellezza e quindi non compresero fino in fondo il genio di Filippo Bentivegna e, dal momento che fu giudicato inabile alla produzione, al lavoro, lo rimpatriarono come scarto, sostanzialmente inutile per l’America della corsa allo sviluppo industriale.

Bentivegna, rientrato in Italia fu ritenuto disertore, non avendo partecipato alla Prima guerra mondiale, e così fu imprigionato. Dopo aver passato tre anni in carcere, una commissione medica si incaricò di provare a capire fino in fondo quell’uomo e ne venne fuori che Bentivegna era sì un pazzo, ma un “pazzo non pericoloso” dal punto di vista sociale, per cui poteva essere lasciato a piede libero. Del resto, non deve sfuggire che in quel periodo il regime liberticida fascista apriva le porte delle carceri e dei manicomi, definite istituzioni totali per il carattere repressivo e spersonalizzante, soprattutto a quei visionari e profeti che potevano essere un pericolo per l’assetto sociale. Ma Filippo Bentivegna era il classico “scemo del villaggio”, non un sovveresivo, per cui poteva benissimo dimorare in solitudine nel suo podere.

A Sciacca Bentivegna, privo di qualsiasi formazione artistica e architettonica, per ammazzare il tempo (che insulsa e violenta espressione è “ammazzare il tempo”, come se avessimo, noi piccoli e finiti esseri umani, il potere di porre fine al tempo, al dio Chronos), cominciò nella sua solitudine a scolpire teste di persone nelle pietre calcaree, tufacee, del suo podere. Ne scolpì centinaia, tutte affastellate, bifronti, senza un senso, senza un ordine; come rizomi spuntano volti uno sull’altro, ai quali Sua Eccellenza diede anche dei nomi per sentirsi meno solo e popolare quel regno immaginario che egli si era creato nella sua mente.

Ad un certo punto le rocce che affioravano oltre il terreno terminarono e “Filippu di li testi” cominciò a scavare, a creare cave da cui ricavare altra roccia tufacea e, al tempo, stesso, creò cunicoli con l’obiettivo di cercare una nuova umanità nella «Grande Madre» perché «Dentro la terra è il seme dell’uomo», diceva. Tutti, ovviamente, lo deridevano a Sciacca. Era il re di un regno “senza senso”, nemmeno l’interesse di un pittore svedese, che gli organizzò una personale in paese, servì a rendere onore alla bellezza dell’opera di Bentivegna e, infatti, la mostra fu un totale fallimento.

Nel 1967 Filippo morì e il suo giardino rimase abbandonato, oggetto di sciacallaggio: come spesso accade, quelle opere, ritenute insensate e goffe, erano, tuttavia, così misticamente attraenti da suscitare interesse, per cui obbedisce ad una logica intrinsecamente meridionale l’urgenza di depredare da altri soggetti, da ciò che è pubblico, dalla società civile per abbellire il proprio giardino.

Solo qualche anno dopo la morte di Sua eccellenza la struttura suscitò l’interesse di un altro visionario che tentò nella sua vita di comprendere le istanze degli scarti umani: si tratta di Jean Dubuffet, esponente e teorico dell’Art Brut, detta anche arte grezza. Dubuffet venne a sapere del siciliano da un suo allievo e, coerentemente con il suo progetto di dare voce a pazienti psichiatrici senza formazione, che operavano al di là degli schemi, al di là delle convenzioni, accedendo a mondi che la nostra inutile e arida ragione utilitaristica e affaristica non potrà mai comprendere, recuperò l’intera opera di Sua Eccellenza Fabrizio Bentivegna.

Fu così che il Giardino o Castello incantato venne rivalutato e finalmente acquisito dalla regione Sicilia, che l’ha aperto al pubblico e reso visitabile.

Castello incantato
Castello incantato

[1] M. Losapio, Dèi respinti. Metafisica degli scarti, Mimesis, Milano-Udine 2023.