Francesco Gaetano Caltagirone è l’eccezione che conferma la regola. Nel desolato panorama editoriale italiano dei quotidiani, il costruttore romano fa parlare di sé non tanto per i denari che i suoi giornali devono alle banche, quanto piuttosto per quelli che lui stesso investe nel sistema bancario italiano. Un caso più unico che raro in una galassia costellata da prestiti, mutui e gravami dove i ricavi, secondo l’ultimo studio di Mediobanca sul settore, datato 2019, sono in costante diminuzione insieme agli addetti, mentre le perdite aumentano.
Nodi che prima o poi vengono al pettine, come ben sa Urbano Cairo. L’editore del Corriere della Sera rischia di pagare molto caro il conto della battaglia contro Blackstone sul prezzo pagato dal fondo Usa per l’immobile milanese che ospita il primo quotidiano italiano. Un azzardo che gli ha solo temporaneamente risparmiato le rate dell’affitto, in cambio di un conto da pagare in un’unica soluzione che, se perdesse il contenzioso, sarebbe talmente salato da poter mettere in ginocchio società ben più floride di Rcs Mediagroup. In compenso, gli ha già inimicato la stessa mano che gli aveva fornito il denaro per rilevare il CorSera, quella di Intesa Sanpaolo, che dell’operazione Blackstone era stata uno degli architetti chiave: senza il sostegno di Intesa, e del suo presidente onorario Giovanni Bazoli, difficilmente Cairo sarebbe riuscito ad avere la meglio sul finanziere Andrea Bonomi, sponsorizzato da Mediobanca, nella battaglia per il controllo del Corriere del 2016.
In occasione di quello scontro su Rcs, Intesa si impegnò a concedere integralmente alla Cairo Communication, in caso di successo dell’offerta sull’editrice, un finanziamento revolving da 140 milioni. La linea di credito serviva a pagare la componente in denaro dell’offerta e ulteriori scopi aziendali generali. A un anno di distanza, l’istituto di credito guidato da Messina in pool con Bpm, Mediobanca, Ubi e Unicredit, si è occupato della ristrutturazione del debito di Rcs grazie a un nuovo finanziamento da 332 milioni. E a fine 2020 Rcs aveva un indebitamento finanziario netto di una sessantina di milioni, con 200 milioni di linee di credito utilizzate per 10 milioni. Intanto in capo all’editrice sopravvivono ancora azionisti finanziari come Mediobanca e Unipol, dinosauri di cui Alessandro Profumo, all’epoca amministratore delegato di Unicredit, si augurava l’estinzione fin dal 2007. Quanto all’oggi, sarà dura per il patron del Torino trovare sponda allo sportello di Ca’ de Sass.
Eppure Cairo sapeva bene che gli editori, puri o meno che siano, hanno bisogno di finanziatori. E in Italia questo ruolo è spesso e volentieri giocato dalla prima banca del Paese, Intesa, che è in prima linea anche nel mondo dell’informazione. Un ruolo che si è rafforzato con la crisi, ma anche con le recenti nozze con Ubi. Del resto proprio Bazoli è stato il nume tutelare del Corriere della Sera dall’affaire Banco Ambrosiano in poi. Un legame che per la banca si è tradotto in sostegno economico all’editrice Rcs, che è stata più volte a un passo dal crac anche dopo lo scandalo della P2. Denari che hanno un peso, tanto più oggi che i rapporti con l’editore si sono raffreddati. Non a caso le rinnovate difficoltà di via Solferino combinate con quelle del Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria, riportano ciclicamente di attualità il tema di un matrimonio tra i due gruppi che toglierebbe le castagne dal fuoco a più di una parte in causa.
Il Sole24Ore ha invece al suo fianco un pool di banche che spazia dal Banco Bpm al Creval fino a Mps e Popolare di Sondrio, ma anche il boccino delle sorti del quotidiano di Confindustria è saldamente in mano a Intesa Sanpaolo. Dopo aver rischiato il fallimento, a novembre 2017 l’editrice degli industriali ha effettuato una ricapitalizzazione con la regia di Banca Imi, la banca d’affari del gruppo Intesa. E ha poi ristrutturato il debito con una linea di credito revolving per 28,5 milioni (mai utilizzata e cancellata la scorsa estate) concessa dal pool capitanato da Intesa e un contratto di pegno su conto corrente a favore della stessa banca a garanzia di una fidejussione dall’ammontare massimo di 7,6 milioni. Il tutto sarebbe scaduto a fine 2020, se non fosse intervenuto il finanziamento da 37,5 milioni erogato dalla stessa Intesa in pool con Cassa Depositi e Prestiti, Banco Bpm, Popolare di Sondrio e Mps e garantito dalla pubblica Sace grazie al decreto Liquidità.
D’altronde la banca guidata da Messina è molto attenta alle necessità dell’informazione economica, che pure per profitti brilla ancor meno degli altri editori. L’istituto è tra i finanziatori del Gruppo Class, editore del settimanale Milano Finanza e del quotidiano Mf. A fine 2020, l’editrice doveva a Intesa 228mila euro su un totale di debiti finanziari correnti di circa 16 milioni. Apparentemente un flebile legame per Class, mentre il principale partner parrebbe Mps con un prestito da 2,5 milioni. L’editrice finanziaria ha poi affidamenti bancari a lungo termine per circa 79 milioni, ma soprattutto il 5 luglio 2019 Intesa ha dichiarato alla Consob di avere in mano una partecipazione potenziale in Class Editori del 10,94% in virtù di un bond dell’azionista lussemburghese che controlla Class, Euroclass Multimedia Holding Sa, convertibile in azioni della società editrice e in scadenza a fine 2024.
Altro caso, il gruppo Monti-Riffeser che edita Qn, Il Giorno e Il Resto del Carlino, già cliente del Montepaschi, che al 31 dicembre 2020 aveva in essere 40 milioni di debiti bancari, 27,4 dei quali sono con il gruppo Intesa e 4,5 con Banco Bpm. Anche la holding Tosinvest degli Angelucci, editori di Libero e del Tempo, a fine 2019 aveva debiti per oltre 70 milioni in larga parte nei confronti della galassia Intesa, con Unicredit, Mps e la Popolare di Bari che seguono in secondo piano.
Oggi, a conti fatti, sono davvero poche le case editrici di giornali che non devono soldi al gruppo guidato da Carlo Messina. Per esempio l’editore del Giornale, Paolo Berlusconi, predilige Bpm e la Popolare di Sondrio, mentre in passato il Foglio si è rivolto al Creval e a Chianti Banca e la Società editoriale Il Fatto, che pubblica questo giornale, a Unicredit per il prestito da 2,5 milioni ottenuto lo scorso anno con la garanzia del Fondo Centrale di Garanzia, ma il grosso dei finanziamenti all’editoria passano per Intesa e per la sua boutique degli affari, Banca Imi.
Il cambio di azionariato in testa all’editore di Repubblica, Gedi, ha mescolato le carte in tavola. La famiglia Elkann-Agnelli deve molto a Intesa. Banca Imi, insieme a Mediobanca, è stata il consulente finanziario dell’offerta di Torino sul Gruppo Espresso che ha portato la holding Exor a conquistare gli asset editoriali dei De Benedetti. Sempre Intesa ha poi elargito nel 2020 a Fca il finanziamento da 6,3 miliardi con la garanzia di Sace che ha aiutato Exor a conservare i dividendi straordinari prima della fusione con Peugeot. Del resto, la prima banca italiana non può che essere il primo creditore delle imprese del Paese. Editori inclusi.
di Nicola Borzi e Gaia Scacciavillani sul Fatto Quotidiano