Fare il giornalista non è un lavoro facile, ultimamente, non solo dal punto di vista economico data la crisi dell’editoria, ma anche perché il giornalismo continua purtroppo ad essere molto pericoloso. Sono inquietanti infatti i dati raccolti dall’osservatorio “Reporter senza frontiere” attivo dal 1995. Il bicchiere mezzo pieno parla di “soli” 46 giornalisti uccisi nel mondo nel 2021, ma quello mezzo vuoto ci dice che sono 488, di cui 60 donne, i giornalisti incarcerati con detenzione arbitraria, il 20% in più rispetto al 2020.
Un bavaglio molto stretto per la libertà di informazione e quindi per la democrazia. Il primato spetta a una potenza mondiale con cui tutto il mondo politico ed economico dialoga costantemente, cioè la Cina, con 127 detenzioni. Gli altri Paesi più repressivi nei confronti del giornalismo sono invece la Birmania e la Bielorussia.
In quest’ultimo caso, a parte gli apprezzamenti di un nostro ex premier, Berlusconi, del resto famoso per l’editto bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi, ed ora in odore di Quirinale, per il presidente Lukashenko, che per molti altri non è che un dittatore, stiamo parlando di un Paese che sta subendo sanzioni dall’Unione europea per il trattamento disumano dei migranti e che confina con Polonia e Ucraina.
Se le sue vicende, per i contraccolpi sul dramma dei migranti, sono in qualche modo vicine alle nostre, in Italia è stato finalmente dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa del ’48 che prevedeva il carcere in caso di condanna per diffamazione.
Per anni la Corte Europea dei Diritti Umani aveva sanzionato l’Italia per questo tipo di condanne ma mai il Parlamento aveva recepito le indicazioni dell’Unione Europea per cui è dovuta intervenire la Consulta per cancellare quello che i politici, non particolarmente amanti, se non a parole, della stampa, non hanno voluto mai cassare.
E vari giudici sono stati pronti a seguirli su quella strada tanto da colpire con otto mesi in primo grado, in una delle cause intentategli da Gianni Zonin, anche il nostro direttore (“Condanna di Mantovani a Coviello, Ossigeno per l’Informazione: ha un effetto raggelante e intimidatorio sull’intera categoria dei giornalisti“) costretto, comunque, a spendere altri soldi per andare in Appello a farsi riconoscere, oltre alla sue ragioni, quanto sacnito dalla Corte Costituzionale.