Una giornalista sportiva, Greta Beccaglia, viene palpata (quindi, molestata) da un tifoso di calcio all’esterno dello stadio di Empoli, dopo la partita con Fiorentina; le immagini arrivano in diretta (qui il video) e rimbalzano qua e là in tutti i social italiani. L’episodio si ripete qualche minuto dopo e, questa volta, la molestia è verbale.
Il conduttore televisivo in collegamento con la giornalista la invita a «non prendersela», dopo l’attacco fisico, e chiude il collegamento dopo l’attacco verbale.
In questo minuto e mezzo vi è il condensato audiovisivo della mia educazione affettiva e sentimentale, così come di quella di quasi tutti gli uomini italiani.
Lo so, questo assunto è davvero triste, ma mi permette di ripescare dalla memoria qualche aneddoto della mia pubertà e adolescenza, consentendomi di associare l’episodio appena visto alla lunghissima serie di scene simili che mi sono passate davanti negli anni.
Sì, perché il calcio e le molestie fisiche e verbali sono due componenti fondamentali del vissuto di noi ragazzi nati dagli anni ‘80 agli anni ‘90; ma mentre per quanto riguarda il calcio i ricordi sono perlopiù dolci e positivi, non posso dire altrettanto del secondo punto.
Mi ricordo chiaramente che, tra i 12 e i 14 anni, un tipico rituale di passaggio per noi maschi consisteva nel toccare il sedere della ragazza più bella della classe, del quartiere, della parrocchia ecc. Era una vera e propria prassi, dovevamo farlo tutti prima o poi.
Mario (nome di fantasia) era l’addetto alla “vigilanza”, controllava zelantemente che tutti portassero a termine il compito; forniva suggerimenti, incitava a toccare il sedere più forte, chiedeva feedback sulla consistenza dei glutei. Solo in un secondo momento, Mario e i ragazzi più determinati si spingevano a toccare con forza anche il seno della ragazza più bella.
Seguivano commenti a sfondo sessuale e risate collettive, poi tutti noi ragazzi andavamo al campetto a giocare a calcio. Mi divertivo tantissimo e ricordo quei momenti tra i più belli della mia preadolescenza; la parte in cui ero costretto a palpeggiare Giulia (altro nome di fantasia), invece, ho preferito rimuoverla. Mi faceva davvero schifo; non Giulia, lei mi piaceva davvero tanto, ne ero follemente innamorato. Mi faceva davvero schifo quello che Mario ci faceva fare.
Mario è andato alle superiori in un’altra città, per questo non sono stato costretto a toccare più nessun’altra ragazza in quel modo per sentirmi accettato.
Mi ci sono voluti anni per capire che i ragazzini spesso molestano le ragazze, che la molestia fisica e verbale è un prodotto sociale e culturale, non il gesto di un singolo imbecille; è il risultato di un mondo di segni e simboli che svilisce le donne, un mondo che io vedevo in TV e nei luoghi pubblici tutti i giorni e che avevo interiorizzato e normalizzato, sebbene lo disprezzassi. Un mondo di fronte al quale la ribellione e la denuncia sono doveri, non possibilità.
Mario è cresciuto, lavora in una ditta del mio paese e va ancora allo stadio a vedere la squadra di calcio locale; sono passati alcuni anni da quando molestava Giulia vicino al campetto del paese, ma certe cose, a quanto pare, non sono proprio cambiate.
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a cura di Michele Lucivero
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