Giornalistopoli, giornalisti al servizio dei magistrati?

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Aula di giustizia vuota, come la vogliono i potenti
Aula di giustizia vuota

Nell’articolo di Ruben Razzante su La Nuova Bussola Quotidiana emergono dalle intercettazioni numerosi rapporti confidenziali fra magistrati e giornalisti di grandi quotidiani, questi ultimi usati come strumenti per le lotte di potere fra correnti della magistratura. Giornalistopoli dimostra ancora una volta la sudditanza di molti cronisti di giudiziaria alle Procure e alle toghe, un problema deontologico

In epoca di pandemia ci mancava pure “Giornalistopoli”. Così il quotidiano Il Riformista ha ribattezzato lo scandalo che sta montando in queste ore a proposito dei giornalisti che avrebbero supportato trame di potere ordite da alcuni magistrati. Si tratta di una vicenda torbida nata per gemmazione da “Magistratopoli”, il filone d’inchiesta della Procura di Perugia che ha travolto Luca Palamara, ex procuratore aggiunto di Roma e leader di Unicost, la corrente “moderata” delle toghe.

Delle deprecabili vicende emerse da quelle intercettazioni – nomine pilotate al Consiglio superiore della magistratura in base regolamenti di conti tra correnti delle toghe – si è già detto. La novità sconvolgente è che ora si fa strada l’ipotesi che alcuni cronisti di giudiziaria si siano resi complici di quei giudici per amplificare mediaticamente messaggi funzionali a quelle trame. Nel frullatore mediatico ora finiscono, per la classica eterogenesi dei fini, conversazioni alquanto imbarazzanti tra Palamara e alcune firme note dei principali quotidiani italiani. Si tratta di intercettazioni non penalmente rilevanti e quindi non valutabili ai fini dell’inchiesta Magistratopoli, ma certamente utili per analizzare sul piano deontologico e disciplinare la condotta di quei cronisti.

Chi di intercettazioni ferisce di intercettazioni perisce, verrebbe spontaneo dire. Per anni alcune autorevoli firme del giornalismo cosiddetto giustizialista hanno avviato vere e proprie crociate per difendere la liceità della pubblicazione di intercettazioni penalmente irrilevanti (prive di elementi di reato), considerandole però di interesse pubblico. Hanno difeso la loro pubblicazione in nome del diritto all’informazione dei cittadini. Oggi sono loro stesse vittime di quella pratica assai discutibile di accendere il ventilatore pieno di letame (calzante definizione di Claudio Cerasa, direttore del Foglio) quando non sussistono in realtà elementi sufficienti per violare la privacy delle persone che parlano al telefono. La cosa più raccapricciante è che la notizia, anziché suscitare indignazione unanime nella categoria dei giornalisti, ha acceso una diatriba, sterile e squalificante, tra testate, che sembrano aver ingaggiato una battaglia su come screditare il più possibile i rivali in ambito editoriale.

Ad esempio, il quotidiano Libero, pubblicando ieri le telefonate tra Palamara e Liana Milella, cronista della Repubblica, ha colto l’occasione per bacchettare il quotidiano La Verità, che avrebbe sottaciuto la notizia del coinvolgimento nell’inchiesta di un suo collega, Giacomo Amadori. La Milella avrebbe chiamato Palamara il giorno in cui il suo giornale ha pubblicato la notizia dell’inchiesta Magistratopoli quasi per scusarsi dell’enfasi di quell’annuncio e lo avrebbe avvertito che una sua collega stava per andare a casa sua probabilmente per strappargli una dichiarazione. Nell’informativa ci sono anche chiamate fatte da altri cronisti, come Francesco Grignetti della Stampa, che correttamente cerca notizie sull’inchiesta, senza mostrarsi arrendevole e complice di nessuno.

In altre telefonate risultano coinvolti Giovanni Bianconi, del Corriere della Sera (definito “vicino ai servizi segreti e cassa di risonanza del gruppo di potere attuale”), Giovanni Minoli (con cui Palamara si confronta sugli articoli e su una possibile intervista a Lucia Annunziata, quest’ultima definita da Minoli “pericolosa perché sta dall’altra parte”), Claudio Tito (che su Repubblica offre diritto di replica a Palamara), Vincenzo Bisbiglia del Fatto Quotidiano (che cerca Palamara per chiedergli informazioni sul conto della moglie, che ha un impiego in Regione Lazio) e altre firme dell’Agi, dell’Ansa, del Tempo, del Tg5 e della Verità.

Piero Sansonetti, direttore del Riformista ironizza: «Curiosamente queste intercettazioni non vengono pubblicate sui giornali. Eppure, proprio i giornalisti intercettati sono gli stessi che di solito pubblicano, a loro firma, paginate intere di intercettazioni di politici». E aggiunge: «I giornalisti più importanti dei grandi giornali parlavano con Palamara e partecipavano alle operazioni politiche in corso per determinare i nuovi equilibri nella magistratura». Le commistioni tra stampa e magistratura toccano l’apice con le pressioni che il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini avrebbe fatto per parlare con Repubblica e condizionare la linea editoriale di quel quotidiano sul caso Palamara. «Il giornalismo politico, in Italia – conclude amaramente Sansonetti –  è del tutto subalterno al giornalismo giudiziario. E questo grazie alle grandi campagne moralizzatrici condotte dai giornali negli anni scorsi. ll giornalismo giudiziario, non tutto, certo, ma quasi tutto, è assolutamente eterodiretto e privo di indipendenza. E dunque non è più giornalismo».

Le intercettazioni delle chiamate con i giornalisti, così come quelle con i politici, son state prese con i trojan sul cellulare dell’ex procuratore aggiunto di Roma, Luca Palamara. Però quelle tra magistrati sono state pubblicate con cautela e ora anche quelle tra giudici e giornalisti escono, ma col contagocce. Mentre quelle che coinvolgono la politica sono sempre state spiattellate ai quattro venti, pur non contenendo quasi mai notizie di reato.

Giornalistopoli dimostra ancora una volta la sudditanza di molti cronisti di giudiziaria alle Procure e alle toghe. E pone un problema deontologico. I giornalisti devono operare al servizio esclusivo dell’opinione pubblica, senza far dipendere le loro scelte editoriali dai desiderata di qualcuno. Dalle telefonate emergono condotte estremamente lesive del principio di autonomia dei giornalisti e i consigli di disciplina competenti per territorio farebbero bene ad occuparsene. Altrimenti diventa arduo attribuire bollini di qualità ai giornali cartacei.