“Aiutare la psiche per aiutare la vita” è il tema promosso in occasione della Giornata Nazionale della Psicologia, che si tiene oggi 10 ottobre in concomitanza con la Giornata Mondiale della Salute Mentale, arrivata quest’anno alla VI edizione.
Questo tempo di pandemia ha reso i cittadini più consapevoli dell’importanza di avere un sistema sanitario pubblico, ma anche il problema di non avere un sistema adeguato di psicologia pubblica.
Viviamo, infatti, in una società dove c’è bisogno di psicologia, perché sono cambiate sia le esigenze sociali che individuali. La pandemia ha generato uno sconvolgimento nelle abitudini di vita di ciascuno di noi in ogni ambito della vita: lavorativo, familiare, affettivo, di organizzazione quotidiana e ci ha riportato ad una dimensione di presente caratterizzato dall’incertezza e dalla paura. In poche parole, potremmo dire che da un lato cresce il disagio e dall’altro cresce il bisogno di una educazione alla psiche, paradossalmente ne serve di più e ce n’è di meno.
Si tende a vedere, o meglio è più comodo vedere, solo nella biologia o nell’economia le cause di ciò che accade nella psiche (malessere, disturbi o benessere che sia), pensare ad esempio che ansia o depressione siano il prodotto della genetica o della biochimica cerebrale, perché non solo deresponsabilizza le persone e la società, ma si può intervenire con i farmaci.
Anche l’approccio economico, che ipotizza che il malessere diffuso sia frutto delle situazioni socioeconomiche contingenti (l’economia va male e le persone stanno male) porta a pensare che ciò che serve è distribuire soldi o comunque agire sulle leve economiche. In realtà la psiche è un filtro nella lettura della realtà, agisce come fattore causale sia nel determinare il vissuto personale del contesto (quindi dei fattori socioeconomici), sia nei modi con cui la persona agisce sul contesto (comportamenti, relazioni, lavoro, produttività, scelte economiche, ecc.).
Potremmo affermare, con le parole del padre della medicina Ippocrate «similia similibus curantur» (le cose simili sono curate dalle cose simili), che se un problema viene generato a livello familiare, culturale, sociale, interpersonale, il modo migliore per affrontarlo è agire allo stesso livello; al contrario, se il problema viene generato biologicamente, il trattamento privilegiato sarà quello psicofarmacologico.
La pandemia ha acuito fragilità che magari in altri periodi avrebbero “retto”, è stato un vero e proprio detonatore, come sottolineato da Stefano Vicari, docente e primario di Neuropsichiatria infantile all’ospedale “Bambino Gesù” di Roma, con un aumento del 30% dei ricoveri in psichiatria per atti di autolesionismo e tentativi di suicidio.
I disagi della pandemia hanno aumentato il malessere psicologico presente nella società; molti adolescenti, ma anche adulti, arrivano nel mio studio per problemi d’ansia, attacchi di panico e depressione, oltre a difficoltà relazionali e patofobia (paura di poter contrarre una malattia).
La settimana scorsa, ad esempio, un ragazzo è arrivato dicendomi: «Ho attacchi di panico ogni volta che devo uscire o andare da qualche parte. Non ho tanti amici, sono sempre stato timido, ma dal lockdown mi sono come abituato a stare lontano da tutti».
Si è creduto, erroneamente, che tutto ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi anni a causa della pandemia fosse transitorio, che bastasse fare uno sforzo e sarebbe tutto finito: questo non ha permesso, soprattutto ai più giovani di elaborare ciò che hanno subìto (la Didattica a distanza, l’interruzione delle relazioni sociali, delle attività sportive, dei momenti ludici, ecc).
La speranza è che questa fase sia ormai definitivamente passata, ma la nostra attenzione deve rimanere vigile, fondamentale, prendere sul serio e cogliere i campanelli d’allarme, mantenendo aperto il dialogo con bambini e ragazzi, per prendercene cura prima che sia troppo tardi e che si sviluppino disturbi cronici più severi.
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a cura di Michele Lucivero
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