Giorno della Memoria e appartenenza alla famiglia umana, Agorà. La Filosofia in Piazza: la tentazione di sentirsi figli unici

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Giornata della Memoria 2021

Gli psicologi di professione hanno le competenze per dirlo meglio e confermare con perizia di fonti ed esperimenti che il meccanismo della memoria è strettamente legato a quello dell’interesse: ci ricordiamo meglio le cose che ci hanno colpito, che sentiamo vicine, che percepiamo come qualcosa di utile, in una parola, che ci interessano.

Interesse viene dal latino “inter-esse”, essere dentro, essere tra cose, eventi, fatti. Per il senso comune non si può “essere dentro” ad ogni cosa: molte cose le sentiamo lontane da noi, distanti, aliene. Ma è così? L’interconnessione appare il carattere tipico del periodo di globalizzazione che viviamo e anche la scienza contemporanea conferma questo.

Edward Lorenz – matematico e meteorologo sviluppatore della teoria del caos – ci ha introdotto il concetto di effetto farfalla: nello sviluppo di un modello meteorologico, con un piccolissimo arrotondamento dei dati non si riprodurrebbero i risultati che avremmo in caso di non arrotondamento. In soldoni, un piccolo cambiamento delle condizioni iniziali può creare un risultato significativamente diverso: «può il battere di ali, di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?» si chiedeva Lorenz in una conferenza del 1972.

Se tutto è connesso, allora, in che relazione siamo con il passato ed in particolare con gli eventi tragici della storia, ad esempio con il fenomeno della Shoa? Oggi più che in altri giorni dovremmo chiedercelo. È difficile esserne interessati se non c’è qualcuno che ci tiri dentro questo evento, che ci porti, almeno con il pensiero, in quei luoghi: gli insegnanti a scuola sono sollecitati a fare questo ed è questo il senso del “Giorno della memoria” che oggi si celebra. Da Auschwitz in poi c’è un “dopo” che ci auguriamo non sia un ritorno al “prima” di Auschwitz. E cosa c’era prima di Auschwitz? Alcuni diranno: ignoranza, altri pregiudizi; altri ancora: questioni economiche e storiche che hanno portato all’odio verso un popolo, quello ebraico.

Oggi, sembrerebbe impossibile che questo possa ripetersi, eppure assistiamo in silenzio ad altri genocidi programmati non tanto lontani da casa nostra: i profughi al confine con la Bosnia sono un esempio. Arthur Schopenhauer nel suo capolavoro filosofico ci offre un rimedio a questa indifferenza, la compassione. Superando le tradizionali posizioni filosofiche, che individuavano il fondamento della morale nella ragione o nel sentimento puro, il filosofo ritiene che la compassione permetta un’immersione nella conoscenza della sofferenza presente nel mondo, conseguenza del conflitto perenne tra volontà diverse, e che questa conoscenza diventi poi azioni buone e via che conduce alla liberazione dal dolore: «ogni amore (?????, caritas) è compassione»[1].

La compassione (Mitleid) ha origine dalla considerazione che il dolore (Leiden), la cui connessione linguistica con la vita (Leben) è evidente, è essenziale alla vita nel suo complesso e da essa indivisibile. Se l’individuo, in quanto corpo, è un essere desiderante e ogni desiderio nasce da una mancanza, questa mancanza verrà vissuta con dolore e ogni soddisfazione sarà solo un dolore tolto, una felicità quindi di natura negativa. Ogni atto d’amore che facciamo per gli altri, allora, non può che partire dalla scoperta che il dolore degli altri è il nostro stesso dolore: ogni atto d’amore sarà perciò compassione.

Sentire, conoscere e agire si fondono quindi nell’emozione della compassione che permette di strappare il velo di Maya, che ci sottopone al principium individuationis, l’illusione cioè di essere atomi sociali, e di giungere al riconoscimento nell’altro del nostro Io, riconoscimento espresso nella formula dei Veda Tat twan asi!, quello sei tu:  «Per colui che pratica le opere d’amore il velo di Maya è divenuto trasparente, e l’illusione del principium individuationis lo ha abbandonato. Egli riconosce in tutti gli esseri, per conseguenza anche del sofferente, sé, il suo Io e la sua volontà. […]Essere guarito da quest’illusione e abbagliamento di Maya, e praticare opere d’amore fa tutt’uno»[2].

La memoria da sola, allora, non basta, se ad essa non accompagniamo un altro sentimento: il sentirsi appartenenti non a questo o a quel popolo, ma alla famiglia umana. Ma ancora preferiamo sentirci figli unici.

[1]  A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bompiani, Milano 2010, p.729.

[2] Ivi, p.725.


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a cura di Michele Lucivero

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