Il giorno delle Foibe: riflessioni dovute alla Memoria

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Le foibe
Le foibe

Il Giorno delle Foibe non è una giornata riconosciuta dall’ONU (poco male, l’Onu è ormai una carovana “petroldollarata”…), ma una solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno. Istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, vuole conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra (1943-1945), e della più complessa vicenda del confine orientale».

Il «Giorno del Ricordo», in memoria dei quasi ventimila esseri umani come noi, torturati, assassinati e gettati nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) dalle milizie della Jugoslavia di Tito e dai suoi complici partigiani è stato celebrato per la prima volta nel 2005.

Non ho una grande conoscenza in fatto di Foibe, ma ai diktat storici, preferisco sempre le valutazioni umane. Delle Foibe a casa mia non se n’è mai parlato…qualcosa mi diceva “zia Egle”. Lei non era proprio una zia, ma l’impiegata di mio padre, profuga dall’Istria, che abitava verso la Riviera, era fuggita dal marito russo, violento e comunista, come diceva lei, che ogni tanto la rintracciava e la pestava, anche davanti ai miei occhi e le diceva che era una fascista e doveva a lui la sua liberazione, spesso interveniva la polizia. Capivo poco, ero piccola, a dir la verità, la Egle non parlava di Foibe, ma di morti. A dieci anni, tra i racconti degli uni o degli altri pensavo che la vita un enorme mappamondo pieno di morti, insomma una grande cassa da morto rotonda. Prima e Seconda guerra mondiale, Campagna d’Africa, Giado-Cirenaica, Campi di Sterminio, Campi di Concentramento (si moriva anche lì), Russia e poi i morti fascisti, morti partigiani comunisti e partigiani cattolici, ferri da stiro sul seno, torture e prigione, parenti scomparsi e mai trovati. Ho sentito questi discorsi sin dalla prima infanzia, non comprendevo tanto, ma abbastanza da credere che la Terra fosse solo un grande inferno.

A vent’anni abbondanti ero ancora convinta che i “morti fascisti per mano sinistra” fossero un atto di giustizia, perché questo era il messaggio che mi era stato trasmesso dalla società civile di sinistra che frequentavo, seppur con molto distacco. Giustificavo le rappresaglie partigiane a prescindere.

Cominciai a capire qualcosina (ma ci volle tempo prima di arrivare all’analisi lucida), quando m’interessai alla storia degli ebrei internati nel vicentino, nei primi anni 80; in quel periodo fui contattata da più persone locali, di diversa estrazione sociale e politica.

Chi cercava un parente, chi voleva sapere se per caso suo padre aveva avuto una relazione con un’ebrea, se era vero, come dicevano in paese che aveva un fratello ebreo, chi mi chiedeva dell’omicidio di tizio piuttosto che di caio, chi addirittura mi chiese se avessi mai sentito parlare del tesoro degli ebrei, una maestra era angosciata perché io ero a conoscenza che sua figlia non era orfana di un caduto in guerra, ma di un ebreo con cui aveva avuto una relazione (non ho mai parlato): insomma una sequela con ordinamenti ideologici e storici diversi e mai accomunati da un filo conduttore.

Criticità storica ed onestà intellettuale erano nel preciso contesto, aria fritta: Quasi tutti volevano qualcosa da me, cercavano di capire se tra i tanti documenti ce n’era qualcuno che potesse ledere la loro onorabilità e che potesse coinvolgerli in una o nell’altra storia, partigiana, fascista o familiare. Ogni tanto qualcuno si sveglia e mi contatta ancora…stesso rituale. Poi c’erano i professori che si facevano propri i miei studi (qui sarebbe lunga da spiegare…), ma mai nessuno che si interessasse alla sofferenza vissuta e all’anima di chi era morto, cosa aveva fatto e che patrimonio umano aveva lasciato.

Ovvero erano tutti schiavi di un quadro politico, ma nessuno portava veramente avanti le ragioni del cuore. Cominciai a guardare gli eccidi con un altro occhio, più pragmatico, più razionale, il mio astio e la mia condanna nei confronti dei tedeschi sono però rimasti immutati nel tempo.

Lungi da me l’idea di un paragone, nessuna tragedia è paragonabile all’altra ed ogni dramma ha una storia a se stante, ma non posso sottrarmi a una riflessione umana. Anche i più di ventimila italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe, erano essere umani, uomini, donne e bambini, con una vita da condurre, invece furono vittime delle milizie della Jugoslavia di Tito, ma anche del Comitato provvisorio di liberazione dell’Istria, improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione che emisero centinaia di condanne a morte.

In questi ultimi tempi si è sentito tanto parlare di revisionismo e negazionismo. Il revisionismo può essere messo in discussione se la revisione non va a inficiare principi storici e scientifici provati e testimoniati. Il negazionismo sulla Shoà è inaccettabile, come lo è sulle Foibe. Intollerabili sono le dichiarazioni fuori luogo, esternate per bocca di contenitori politici, religiosi o semplici cittadini. Spetterebbe a chi ci governa, come spettava anche a chi ci ha governato in passato (e non l’ha fatto) correre ai ripari.

La Memoria non deve diventare ostaggio d’ideologie e protagonismi personali che offendono e sfruttano la Memoria Stessa. Nessuno di noi è senza peccato, ma non c’è imbecille più grande di chi non voglia riconoscere gli errori e non li sappia trasformare in binari, dai quali ripartire per un percorso migliore. Ripulire il passato è impossibile, ci si deve con esso confrontare, però si può sempre affermare di aver sbagliato e di aver fatto tesoro dell’errore, per camminare rettamente verso un mondo più buono!

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Paola Farina
Nata a Vicenza il 25 gennaio 1954, studentessa mediocre, le bastava un sette meno, anche meno in matematica, ragazza intelligente, ma poca voglia di studiare, dicevano i suoi professori. Smentisce categoricamente , studiava quello che voleva lei. Formazione turistica, poi una abilitazione all’esercizio della professione di hostess di nave, rimasta quasi inutilizzata, un primo imbarco tranquillo sulla Lauro, un secondo sulla Chandris Cruiser e il mal di mare. Agli stipendi alti ha sempre preferito l’autonomia, ha lavorato in aziende di abbigliamento, oreficeria, complemento d’arredo, editoria e pubbliche relazioni, ha girato il mondo. A trent’anni aveva già ricostruito la storia degli ebrei internati a Vicenza, ma dopo qualche articolo, decise di non pubblicare più. Non sempre molto amata, fa quello che vuole, molto diretta al punto di apparire antipatica. Dove c’è bisogno, dà una mano e raramente si tira indietro. E’ generosa, ma molto poco incline al perdono. Preferisce la regia alla partecipazione pubblica. Frequenta ambienti ebraici, dai riformisti agli ortodossi, dai conservative ai Lubavitch, riesce nonostante il suo carattere a mantenere rapporti equilibrati con tutti o quasi. Sembra impossibile, ma si adegua allo stile di vita altrui, in casa loro, ovviamente.