“Il 12 luglio 2019 il giudice Matteo Mantovani emetteva una sentenza sulla quale così titolavamo: “Otto mesi a Coviello per indagini su Roi, Zonin e Zigliotto. Direttore VicenzaPiu: per opporci dovremo continuare a fare inchieste” registrando la solidarietà di chi ha a cuore la libertà di stampa, molti per noi, piccolo ma, lo diciamo con convinto orgoglio, grande e diffusissimo mezzo di informazione indipendente, pochi per la verità tra la massa di sepolcri imbiancati che emettono parole al servizio dei potenti di turno”: così scriveva Pietro Cotron su ViPiu.it l’11 novembre 2019.
Nel titolo “Condanna di Mantovani a Coviello, Ossigeno per l’Informazione: ha un effetto raggelante e intimidatorio sull’intera categoria dei giornalisti” riferivamo quindi, di una presa di posizione di solidarietà netta di Ossigeno per l’informazione (OSservatorio Su Informazioni Giornalistiche E Notizie Oscurate) “istituito nel 2008 con il patrocinio della FNSI e dell’Ordine nazionale dei Giornalisti per documentare e analizzare il crescendo di intimidazioni e minacce nei confronti dei giornalisti italiani…”.
Nel titolo “Condanna di Mantovani a Coviello, Ossigeno per l’Informazione: ha un effetto raggelante e intimidatorio sull’intera categoria dei giornalisti” riferivamo quindi, di una presa di posizione di solidarietà netta di Ossigeno per l’informazione (OSservatorio Su Informazioni Giornalistiche E Notizie Oscurate) “istituito nel 2008 con il patrocinio della FNSI e dell’Ordine nazionale dei Giornalisti per documentare e analizzare il crescendo di intimidazioni e minacce nei confronti dei giornalisti italiani…”.
Ora arriva da parte della Consula la condanna di quella condanna e di tante altre emesse senza rispettare i dettami del CEDU che da anni chiedevano che la legge italiana fosse adeguata a quella europea senza anche il Parlamento italiano rispettasse i dettami europei a difesa della libertà di stampa. Di seguito riportiamo l’articolo odierno di Liana Milella su la Repubblica.
La sentenza della Corte costituzionale
Carcere a chi diffama su giornali e social “Solo nei casi gravi”
ROMA — Via il carcere per punire i giornalisti che diffamano, datato 1948, quando vide la luce la legge sulla stampa. La Consulta lo sopprime. Ma non del tutto. Perché conserva ugualmente, non solo per i giornalisti, ma per chiunque scriva sui social utilizzando quindi un mezzo pubblico, la possibilità di finire in cella da 6 mesi a 3 anni qualora venga attribuito un fatto di eccezionale gravità. Ovviamente, nelle mani del giudice, resta la multa che sarà calibrata caso per caso. Dopo le questioni sollevate dai tribunali di Bari e Salerno, e dopo aver dato inutilmente al Parlamento un anno di tempo per cambiare la legge, la Consulta, giusto allo scadere dei 12 mesi, decide da sola: nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di stampa e dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Proprio quello che ha spinto la Corte di Strasburgo, dal 2013, ad assumere numerose decisioni contro il carcere, come quelle sui direttori Belpietro e Sallusti, invitando l’Italia a cambiare le norme.
Quattro ore di camera di consiglio, una decisione unanime. Un relatore, il giudice Francesco Viganò, che ancora ieri durante l’udienza pubblica, ha posto interrogativi precisi su quale possa essere la futura soluzione migliore per il giudice. La cancellazione totale del carcere e la possibilità di utilizzare il bilanciamento delle multe, non solo per chi, di professione, fa il giornalista, ma anche per colui che utilizza i social per esprimere i suoi giudizi.
Alla fine la decisione è presa. Con una bacchettata decisa al Parlamento. Perché esattamente il 22 giugno 2020, la Corte aveva concesso un anno di tempo per cambiare la legge. Come ha fatto sul suicidio assistito e sull’ergastolo ostativo. Ma proprio come per il caso Cappato, il Parlamento è rimasto inerte. Al Senato la legge sulla diffamazione si è bloccata assieme a quella sulle liti temerarie perché Italia viva non ha accettato la “punizione” economica pesante per chi le muove. Ora la Consulta insiste sulla necessità di «un complessivo intervento del legislatore in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione». La Corte, lo ammette, «non ha gli strumenti » per cambiare le leggi da sola. Può tagliare le norme incostituzionali. E lo ha fatto.
Un intervento deciso che riguarda tutti coloro che usano i social. Norme sulla diffamazione per tutti. Che però minimizzano il rischio per un giornalista, ma non solo, di finire in cella, salvo che non attribuisca fatti determinati e particolarmente gravi. Cade l’articolo 13 della legge sulla stampa, la 47 del 1948, protagonista di infiniti dibattiti sulla previsione «obbligatoria» del carcere da uno a sei anni qualora venga attribuito «un fatto determinato». Oltre alla multa.
Resta invece il terzo comma dell’articolo 595 del codice penale che recita così: «Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516». Questo articolo, annuncia la Consulta, «è compatibile con la Costituzione ». Perché sarà il giudice «a sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità». Esattamente quello che è consentito anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.