Nella desolazione che si poteva provare ascoltando i discorsi e vedendo gli atteggiamenti dei vari personaggi che sono intervenuti martedì 20 agosto nella discussione che si è tenuta in Senato sulle sorti del governo, certamente l’ormai ex presidente del consiglio Giuseppe Conte si è distinto per pacatezza e compostezza. Certo, la comunicazione iniziale e la replica finale di Conte hanno avuto contenuti molto duri nei contronti di Matteo Salvini.
Forse non siamo più abituati ad ascoltare dicorsi così articolati nei quali le argomentazioni e gli attacchi sono diretti con chiarezza e senza alcuna ambiguità. Gli interventi di Giuseppe Conte hanno portato allo scoperto un malessere e una distanza ormai insanabile tra lui e il capo della Lega. Forse sono stati un po’ tardivi ma hanno avuto un’efficacia e una chiarezza che non si sentivano da tempo.
Le sue parole hanno, di fatto, squarciato quel velo di ipocrisia che avvolgeva le azioni e le decisioni del governo da molti definito “giallo-verde”. Grazie ai suoi interventi, da ieri, Conte (da sempre considerato una sorta di comprimario) è stato innalzato al ruolo di statista. Uno dei pochi esistenti nello scenario italiano.
Bisogna, però, riflettere su quanto sia triste dover constatare che basta parlare in un italiano corretto e senza gridare per apparire uno statista. Perché i contenuti degli interventi di Conte sono stati, tutto sommato, normali e hanno indicato soluzioni non certo sconvolgenti o innovative.
Comunque, con la sua chiara esposizione, ci ha messo al corrente di come e perché il suo governo ha fallito e della miserabile pochezza dei principali responsabili e dei protagonisti di questo disastro. La fotografia del “governo del cambiamento” è stata impietosa. Inadeguatezza, pressapochismo, ricerca dell’apparenza, spasmodica voglia di primeggiare, arroganza, poco o nessun senso dello Stato, ignoranza costituzionale, desiderio inquietante di avere pieni poteri, preoccupanti pulsioni autoritarie, ricorso ossessivo a simbologie religiose in contrasto evidente con la necessaria laicità dello Stato … sono state caratteristiche riconosciute da Conte soprattutto al potente ministro dell’interno (ma non solo).
Un ministro che, ostentatamente, anche ieri, mentre parlava l’ancora prima ministro, baciava il crocefisso di un rosario e, poi, nel suo intervento chiedeva per il popolo italiano la protezione del cuore immacolato di Maria. Imbarazzante.
Ma quello che è stato assente nel dibattito (spesso aspro e urlato) di martedì è un progetto di reale e radicale cambiamento. Non c’è stato niente, neppure in embrione, nemmeno un accenno. Nessuno si è scostato dalle linee guida del sistema e del modello di sviluppo attuali. Forse qualche slogan, ma sempre nel solco delle regole dettate (imposte) dal capitalismo trionfante.
Non c’è stata alcuna “stonatura”, al massimo qualche aggiustamento in senso più o meno progressista a un sistema immutabile e irriformabile. Qualcuno, ad esempio, ha forse detto qualcosa sul disastro provocato dalle privatizzazioni? Qualcuno, forse, ha avuto il coraggio di dire che se, da trent’anni almeno, si è privatizzato tutto il possibile, se si sono concessi sgravi fiscali, investimenti a fondo perduto, condoni e regalie varie agli imprenditori privati, se sono stati cancellati progressivamente i diritti di chi lavora, visti i risultati sarebbe giusto e necessario dichiarare il fallimento di queste politiche e ipotizzare (almeno) una socializzazione dei mezzi di produzione? Che sarebbe auspicabile (almeno) un ruolo attivo dello stato nella pianificazione, nella gestione e nel controllo di cosa, come e dove produrre e a chi deve andare prioritariamente la ricchezza prodotta?
Adesso il governo Lega-M5S non esiste più. Ha fallito in maniera tristemente clamorosa. Giuseppe Conte ha elencato una serie di risultati positivi, di “successi”. Non potevamo chiedergli nulla di diverso. Forse, l’ex Presidente del Consiglio, ha sinceramente creduto in quello che faceva.
Ma vorrei evidenziare un risultato che non è sotto gli occhi di tutti perché poco “pubblicizzato”. Un risultato che non è certo positivo né è un successo. È una tragedia che avviene ogni giorno e sulla quale, se non in casi eccezionali, viene steso un velo di silenziosa omertà. È la strage di lavoratori che avviene lentamente (ma non così tanto) nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi, negli uffici, nei luoghi di lavoro.
Martedì è stato difficile cogliere qualcosa su questa strage perché è stata assente dal dibattito. Si è parlato di poltrone, di finanza, di immigrazione, di porti chiusi, di grandi opere, di decreti sicurezza, di TAV, di spiagge e vacanze. Si sono fatti nomi e cognomi dei responsabili veri o presunti della crisi (ognuno ha puntato il dito contro vecchi e nuovi avversari), ci sono state critiche ed esaltazioni dell’Unione Europea … ma di sicurezza nei luoghi di lavoro niente.
Per lorsignori, il problema non esiste. Tutti sono impegnati a fare altro. Molti, se non tutti, si stanno preparando a continuare la campagna elettorale che, in effetti, non è mai finita da tempo immemorabile. Questo silenzio soffocante su uno dei temi principali del nostro paese è indice di un’abitudine all’indifferenza preoccupante. Una sottovalutazione o, meglio, un menefreghismo che ha indotto il “governo del cambiamento” ieri dimissionario (come, del resto, tanti altri prima) a non affrontare il problema di un lavoro sempre più precario e pericoloso.
L’unico provvedimento adottato e sbandierato da Luigi Di Maio è stato quello di tagliare i contributi dovuti dalle imprese all’INAIL. Soldi in meno, dunque, che servivano a prevenire e contrastare gli infortuni sul lavoro. Non c’è che dire. Un “ottimo” risultato … ma per chi? Non certo per chi è costretto a lavorare in situazioni di pericolo sottostando a condizioni sempre più precarie.
Vediamo qualche numero. Da quando si è insediato il governo, il 1° giugno 2018 a quando nella sera del 20 agosto 2019 Giuseppe Conte ha rassegnato le dimissioni, durante i 445 giorni di esistenza del governo “giallo-verde”, sono mortiper infortunio nei luoghi di lavoro e oltre 1.700 se si considerano anche i decessi in itinere. Una vera e propria guerra (un conflitto tra capitale e lavoro sempre più sanguinoso) che il governo non ha affrontato ma ha lasciato che facesse il suo corso, così, nella sostanziale indifferenza sua e del parlamento. Che scorresse via, confidando nell’abitudine e nel dilenzio che copre questo massacro.
Questa incapacità di agire, questa volontà di non intervenire, è una macchia indelebile nella “fedina penale” del governo dimissionario e di tutte quelle forze politiche presenti in parlamento che non hanno saputo o, più semplicemente, voluto fare il proprio dovere.
Anche per questo è un bene che il governo guidato da Giuseppe Conte sia caduto. E, anche per questo, sarebbe utile e necessario che nelle prossime elezioni possano partecipare forze politiche che, ripudiando la convenienza personale, mettano al primo posto del proprio programma il diritto costituzionale a un lavoro garantito, sicuro e giustamente retribuito.