Giuseppe Nardini e la BPVi: fu detronizzato nel 1996 da parte di Zonin e sappiamo come è andata a finire

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Da Nardini a Zonin, ovvero la deriva della vi-cen-ti-ni-tà, di Roberto Brazzale* da VeneziePost.

Rendere omaggio alla figura di Giuseppe Nardini senza ricordarne il ruolo quale presidente della Banca Popolare di Vicenza sarebbe un errore. Nardini fu detronizzato nel 1996 da parte di Gianni Zonin durante una drammatica assemblea nella quale si fronteggiavano due fazioni e due piani diversi di concepire il futuro dell’istituto. Mentre Nardini aveva capito che era giunto il momento di rinunciare alle velleità cittadine o provinciali, Zonin spingeva verso la permanenza di una indipendenza vicentina. Oggi sappiamo come finirono le cose.


Rendere omaggio alla figura di Giuseppe Nardini, grande imprenditore e signore, significa ricordare senza reticenze le vicende della Banca Popolare di Vicenza che lo videro protagonista nel cercare di arginare l’ascesa di un gruppo dirigente le cui responsabilità sono oggi manifeste, ma che allora montò in sella a furor di popolo. I veneti in generale, ed i vicentini, in particolare, sembrano preferire un processo di rimozione del loro recente passato alla dolorosa ma salutare autocritica.

Giuseppe Nardini fu detronizzato dalla presidenza della Banca Popolare Vicentina nel maggio del 1996 da parte di Gianni Zonin e della sua turba al motto di “vicentinità-tà-tà“, durante una drammatica assemblea nella quale si fronteggiavano due fazioni e, con esse, due programmi diversi di concepire il futuro dell’istituto berico.
Al momento della sua destituzione, Nardini portava in assemblea il bilancio di un istituto che assomigliava più a Fort Knox che ad una banca. I numeri dell’anno 1995, il 129° di vita, erano eloquenti: la raccolta diretta ammontava a 4.194 mld di lire a fronte di impieghi per 3.518 mld (83,9% della raccolta), il valore nominale dei crediti in sofferenza erano 95,7 mld, con un rapporto crediti in sofferenza/impieghi a clientela pari al 1,94% degli impieghi (contro una media del sistema di circa l’8%), il patrimonio netto di bilancio era stimato a 1.198 mld, l’utile netto risultò di 66 mld di lire con un ROE del 6,65% contro il 5,02% delle 20 principali banche del Triveneto, le azioni erano 23.788.760 ed i soci 22.216, il dividendo distribuito per azione 2.100 lire. Gli sportelli erano 118, in Veneto, Lombardia e Piemonte, ed i dipendenti 1.250. E’ facile da questi numeri arguire come le azioni valessero già allora, in ipotesi di valorizzazione sul mercato ed ai multipli allora pagati, il valore che fu loro attribuito dalla Banca alla fine della ventennale presidenza Zonin.
La popolare si chiamava allora “Vicentina“, denominazione dal grande valore simbolico assunta all’atto della fusione con la Banca Popolare di Thiene, un vero e proprio gioiello che nel 1988 aveva portato in dote la redditizia rete dell’alto vicentino, l’area di gran lunga più dinamica e ricca della provincia, alla quale si aggiungeva la recente incorporazione dell’asiaghese Popolare dei Sette Comuni.
Non è un caso che, salito in sella, il presidente Zonin volle ritornare alla denominazione originaria “di Vicenza”, con questo rimarcando, per chi non lo avesse inteso, la nuova visione centralistica e personalistica, ed una forte “vicentinitudine“.
I progetti che si scontrarono in quella drammatica assemblea del maggio 1996, ridotti a grossolana sintesi, erano quelli di una aggregazione con la padovana “Popolare Veneta“, sostenuto dalla presidenza Nardini, e dall’altro lato la permanenza di una indipendenza vicentina in una prospettiva di espansione “stand alone” ed “aggregante”, come allora si usava dire. La disponibilità di un “free capital” di 800 mld di lire allettava molti.
Oggi sappiamo come finirono le cose.
La Popolare di Vicenza guidata da Zonin iniziò un’irrefrenabile crescita dimensionale, con l’obiettivo di raggiungere addirittura i mille sportelli, facilitata dalla esagerata espansione del credito di quegli anni. Quella crescita portò, anno dopo anno, ad un drastico annacquamento dell’avviamento e del valore reale delle azioni, nel tempo sestuplicate di numero per sostenere l’espansione. Per lisciare il pelo al popolo elettore, nella impossibilità di distribuire dividendi allettanti a causa di una redditività che calava man mano che le dimensioni crescevano, la gestione Zonin iniziò così ad incrementare il valore di emissione delle azioni, valore che, finché la catena girava, coincideva con quello di liquidabilità.
Esplicitare il valore latente, già preesistente, permetteva di nascondere la carenze della gestione e tradiva la cultura dei precedenti amministratori che cercavano sempre di “nascondere” quel valore a riserva. Ingannava pure i soci che vivevano nella consolidata convinzione, giustificata da un’esperienza secolare, che le azioni delle popolari nascondessero significative plusvalenze. Questa circuizione dei soci, questo abuso della credulità popolare, è il caso di dirlo, continuò fino al punto in cui il valore di emissione superò di gran lunga il valore reale del titolo e gli ultimi sciagurati aumenti di capitale furono collocati a valori doppiamente insensati, dato che le sofferenze sui crediti avevano già bruciato l’intero patrimonio della banca a seguito della micidiale euro-deflazione degli anni dieci. Qualcuno si potrebbe legittimamente chiedere perché la Banca d’Italia non intervenne a tempo debito, avendo il compito istituzionale di vigilanza e indirizzo; in futuro, qualche studioso si prenderà certo la briga di svolgere sul tema indagini che sappiano rendere giustizia ai soci ed all’intero territorio di una gestione e sovverta gli esiti “pro domo sua” dei lavori della apposita commissione parlamentare d’inchiesta.
Nel frattempo, a seguito di complesse vicende, i padovani si fusero con la Banca Antoniana di Silvano Pontello e qualche anno dopo rinunciarono sì ad una propria banca in città ma portandone a casa tutto il valore.
Il tempo è signore e anche il cav. Nardini lo era, tant’è che incassò da par suo l’amarezza della improvvida defenestrazione. Non solo, era anche un uomo di grande intelligenza e cultura che aveva capito, assieme ai suoi sodali ed al suo staff dirigenziale, che alla fine degli anni novanta le attività bancarie, la “foresta pietrificata”, sarebbero state rivoluzionate dall’incremento poderoso della concorrenza, dalla internazionalizzazione dell’economia, dall’avvento delle nuove tecnologie che avrebbero minato la redditività a favore del cliente. Aveva capito che era giunto il momento di rinunciare alle velleità cittadine o provinciali, allo stesso modo in cui a Thiene, otto anni prima, avevamo capito che sarebbe stato incosciente cercare di resistere, tanto da giungere ad una fusione paritetica con la Vicenza che ci vide integralmente riconosciuto, e moltiplicato, il valore di un istituto gestito con grande saggezza e prudenza.
Zonin ed i suoi seppero invece eccitare gli animi dell’azionariato popolare e di grandi soci, ingenui o in mala fede, attorno ad un disegno di “grandeur” anacronistica e perdente, sostenuto dalla complicità delle categorie e professionisti, nonché dalla distribuzione ecumenica di benefici immediati, tangibili, subito monetizzabili, che hanno suggestionato fino all’ultimo l’assemblea, garantendo consenso.
La storia manca sempre di controprove fattuali, tuttavia il tempo offre molti strumenti per immaginare come avrebbe potuto diversamente evolvere la situazione della banca vicentina se una maggiore saggezza avesse fatto prevalere il progetto del vertice che si riconosceva attorno al cav. Nardini. Oggi, questo è certo, i vicentini non hanno più ne’ la banca ne’ il denaro, anzi, devono fare i conti con i debiti scoperti delle famigerate “baciate“.
Stàghe distante!“, furono le secche parole che all’epoca mi disse un grande vecchio, consigliere della banca riferendosi al gruppo che stava per rovesciare la presidenza Nardini.
Gli uomini come il cavaliere bassanese ci mancheranno. Ricordarne la testimonianza aiuta a capire le vere cause delle sventure occorse nel recente passato e magari ci fa sperare di non ripeterle in un futuro troppo prossimo.
*Avvocato e presidente dell’omonima azienda lattiero-casearia, la vicentina Brazzale Spa.