
(Articolo sulla mafia in Veneto da VicenzaPiù Viva n. 295, sul web per gli abbonati ora anche il numero di 296 di marzo, acquistabile in edicola in versione cartacea).
La legge regionale antimafia approvata nel 2012 non è ancora a regime”: lo denuncia il primo firmatario Roberto Fasoli.
Sul finire dell’anno scorso l’ufficio studi della Cgia di Mestre, diretto da Paolo Zabeo, ha pubblicato i dati sulle infiltrazioni mafiose nel tessuto imprenditoriale del Veneto. Dati che provengono dalle segnalazioni di operazioni finanziarie sospette che Banca d’Italia riceve da istituti di credito, compagnie di assicurazione, società finanziarie, società di leasing, notai, commercialisti e altri ancora. Questo monitoraggio disegna un’area grigia di imprese potenzialmente contigue al mondo della criminalità organizzata. Una potenzialità che trova purtroppo concreti riscontri nei rapporti della Direzione nazionale antimafia e nell’attività della magistratura. Incrociando le risultanze di queste tre fonti, viene fuori un numero impressionante: oggi nel Veneto ci sarebbero più di 8.500 imprese controllate dalla criminalità organizzata o collegate ad essa in vario modo.
Una conferma indiretta del dilagare di questa presenza viene dalle denunce per estorsione ai danni di imprenditori: dal 2013 al 2023 sono aumentate del 116% rispetto ad una media nazionale che si ferma al 66%. A Belluno la crescita è stata del 330%, a Vicenza del 248%. In valore assoluto è Verona la provincia che nel 2023 ha registrato il più alto numero di denunce per estorsione, ben 148. Ma Vicenza è subito dietro con 143, Padova con 124, Venezia con 113. Siamo a una media di tre denunce per estorsione a settimana, prova di una pressione ormai capillare sugli imprenditori di casa nostra.

Questo dato va comunque interpretato. Una denuncia per estorsione potrebbe anche essere strumentale, non rinviare automaticamente alla criminalità organizzata. La Direzione investigativa antimafia nella relazione luglio-dicembre 2023 al ministero dell’Interno spiega che la penetrazione mafiosa nelle imprese si tiene alla larga da metodi violenti. Preferisce indurre le vittime ad una complicità forzata, imponendo la fornitura di prodotti o di servizi in cambio di pagamento in contanti che includono l’Iva. In questo modo l’estorsore può versarla all’erario “normalizzando” il comportamento, che ai controlli fiscali risulta impeccabile. Ma è chiaro che le due modalità non si escludono, si sommano.
Siamo all’epilogo di avvertimenti dati ancora dieci anni fa. Il 19 gennaio 2015 ad un convegno a Treviso organizzato dall’Anci Veneto, l’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Giovanni Russo parlava di «un’attività concreta, imponente, importante, apparentemente senza argini, della criminalità organizzata nel Veneto».
Era in atto una crescita continua, diceva, diventata tra il 2013 e il 2015 addirittura un’escalation. E spiegava perché: «Non viene frenata non per inesistenza di istituzioni in grado di farlo, ma perché il primo argine che deve subentrare è quello di tipo sociale, delle associazioni di categoria, dei Comuni, dei commercialisti, del ceto bancario».
È su questo terreno che il Veneto sconta un grave ritardo. La mafia non è solo un problema di ordine pubblico e di codice penale, ma prima di tutto un fatto culturale Solo nel 2012 la nostra Regione si è dotata di una legge antimafia e solo grazie ad Avviso Pubblico, associazione che unisce 125 enti nel Veneto e oltre 600 in Italia, e alla caparbietà di un consigliere appena eletto, Roberto Fasoli, ex sindacalista, per molti anni segretario generale della Cgil di Verona.
La legge regionale antimafia
Roberto Fasoli arriva in Consiglio regionale nel 2010, prima legislatura di Luca Zaia, con il quale cerca subito un contatto. È eletto nelle file del Pd ma si guarda bene dal fare della proposta una bandiera di partito. «Avrei trasformato la legge antimafia in una battaglia della sinistra», racconta, «mentre la battaglia doveva precedere le appartenenze di partito, perché la presenza mafiosa inquina la politica come l’economia danneggiando di tutti».
Fasoli induce il Pd a promuovere un seminario a cui invita l’intero Consiglio regionale ma anche esponenti di altre regioni. Alla fine del seminario propone un gruppo di lavoro misto tra maggioranza e minoranza del parlamento veneto, coordinandolo con i tecnici della Regione e con Avviso Pubblico. Comincia una discussione che dura un anno, audizioni in commissione con le parti sociali, stesura di un testo condiviso e, per la prima volta, possibilità di consultarlo on line e di intervenire con proposte di integrazione o modifica.
Questo non impedisce che, alla stretta finale, nasca un po’ di maretta tra i partiti. «Per superare le titubanze», racconta Fasoli, «ho incontrato direttamente Zaia e gli ho chiesto: presidente, vuoi che facciamo questa legge o vuoi trasformarla in argomento di polemiche? No, mi ha risposto Zaia, la facciamo. E devo dire che la Lega con tutta la maggioranza mi ha sostenuto in questa esperienza. Sono stato invitato anche in provincia di Treviso, alla presenza dell’allora ministro Roberto Maroni, a parlare della proposta di legge prima dell’approvazione, a spiegare perché andava fatta. Dalla platea dicevano: ha ragione quello lì con la barba, noi vediamo continuamente arrivare sul mercato gente che vende prodotti a un prezzo che noi non siamo neanche capaci di comprarli».
Quello con la barba era lui. Diceva cose che molti imprenditori conoscevano, e conoscono, bene: sanno chi tra loro pratica prezzi insostenibili e come ci riesce, conoscono i nomi, i giri del denaro. A interpellarli oggi potrebbero fornire particolari interessanti ma già all’epoca il problema era molto sentito. «I vertici della Lega hanno dovuto ascoltare la base», ricostruisce sempre Fasoli.
«Prima di presentare la proposta di legge l’ho fatta sottoscrivere a tutti i presidenti delle commissioni e dei gruppi per avere il massimo consenso. Avevo chiesto al presidente del Consiglio regionale Clodovaldo Ruffato che fosse lui a presentarla in aula, ma lui ha detto: io la firmo ma la presenti tu, perché sei tu che ci hai lavorato un anno. È stato un riconoscimento importante».
Nasce così il 28 dicembre 2012 la legge regionale n. 48 “Misure coordinate per la prevenzione del crimine organizzato mafioso e della corruzione e per la promozione della legalità” (QR). Legge approvata all’unanimità, insieme al regolamento di autodisciplina interna, cui i consiglieri si attengono. I pochi emendamenti presentati vengono discussi con i relatori e aggiustati in aula. «Per me questa esperienza bastava da sola a dare un senso alla legislatura», commenta Fasoli.
«All’epoca c’erano colleghi che mi dicevano “cosa c’entriamo noi con la mafia, è roba dei ‘terroni’, in Veneto c’è qualche fenomeno ma non si può dire che ci sia la mafia”. Da questo
livello siamo passati al programma elettorale di Luca Zaia che alle ultime elezioni includeva obiettivi che abbiamo scritto in quella legge, con invito ai sindaci leghisti ad aderire.
Oggi nei processi che si stanno celebrando la Regione si costituisce parte civile, come chiede uno degli articoli della legge».

Le inadempienze 12 anni dopo
Ma il bilancio, dodici anni dopo, non è così soddisfacente. «Alcune parti della legge sono state attuate», tira le somme Fasoli. «Sono l’istituzione della giornata della memoria in ricordo delle vittime delle mafie, un premio per le forze dell’ordine che si distinguono nell’attività di repressione, corsi per dirigenti e funzionari che sono i più esposti alla pressione mafiosa perché è a quel livello che si fanno gli affari. Non ha camminato, invece, l’articolo 9 della legge, che prevede misure a sostegno della legalità nelle scuole: avevo provato a lungo con l’assessore all’istruzione Elena Donazzan, mi diceva sempre sì ma al momento di tirare fuori un po’ di soldi per finanziare la legge non succedeva niente, anche se si trattava solo di spostare qualche decina di migliaia di euro da un capitolo all’altro».
«Un altro capitolo che non è mai decollato», insite Fasoli, «è la centrale unica degli appalti. Le mafie penetrano nel mondo delle costruzioni con imprese senza carriola, come fanno in agricoltura con aziende senza un metro di terra: c’è gente che vince gli appalti in edilizia e non ha mai avuto un operaio, perché poi subappalta tutto. Il controllo della filiera degli appalti diventa fondamentale, perché incrocia un altro problema sotto gli occhi di tutti, quello del caporalato per fornire manodopera alle imprese agricole. È qui che bisogna intervenire».
Per gli stessi motivi dell’articolo 9 non ha camminato neanche l’articolo 11 della legge, che prevede un fondo di rotazione da destinare ai Comuni cui vengono assegnati beni confiscati alle mafie. I Comuni potrebbero accedere quando ne hanno bisogno, restituendo progressivamente quello che hanno utilizzato. Il fondo non è mai stato costituito, eppure se rappresenta il nucleo centrale di funzionamento della legge.
«Questa inerzia che perdura a distanza di anni mi lascia molto dispiaciuto», è l’amara denuncia di Fasoli, «perché dimostra la cattiva comprensione da parte della Regione dell’importanza di far funzionare davvero la confisca dei beni tolti alle mafie e assegnati a enti locali. Un Comune se la cava finché si trova assegnato un appartamento o un garage, ma se arriva un’azienda, un’attività economica, un immobile di grandi dimensioni, cose che esigono interventi immediati, si trova nei guai. Deve pagare gli oneri, mandare avanti la gestione, trovare i soldi per ristrutturazioni e manutenzioni.
Soldi non ne ha, il bene resta inutilizzato e va in rovina e la gente commenta: era meglio prima. Peggio ancora se decide di vendere: fa un favore alle mafie che se lo ricomprano con un prestanome».
Cosa succede ai beni confiscati: l’ex villa di Felice Maniero
Il 27 novembre 2013 l’allora assessore regionale all’agricoltura Franco Manzato, leghista, affidava pubblicamente con una conferenza stampa tenuta a Campagna Lupia 11.000 euro all’associazione “Affari puliti” per riqualificare l’abitazione confiscata a Campolongo Maggiore al boss Felice Maniero. L’edificio veniva riservato a giovani imprenditori in cerca di spazi in cui operare, mentre il parco ribattezzato “giardino della legalità” doveva essere aperto al pubblico. Il denaro serviva per riadattare l’edificio e ridisegnare il parco, eliminando la piscina di famiglia e il campo da tennis. Gli 11.000 euro non arrivavano ovviamente dal fondo di rotazione mai costituito dalla Regione, erano l’incasso di una partita della Nazionale Cantanti tenuta a Dolo qualche settimana prima. Partita che era stata il clou di una serie di iniziative di forte visibilità, avviate da “Affari puliti” e che avevano visto la partecipazione, fra gli altri, dell’Associazione “Libera” fondata da Don Ciotti, dell’attore e regista Marco Paolini, dell’Associazione artigiani della Riviera del Brenta. L’affidamento ad un uso pubblico della villa confiscata a Felice Maniero, con la Regione che ne assumeva in prima persona l’iniziativa, suonava come una riscossa del Veneto fino ad allora piuttosto sonnacchioso nei confronti delle mafie e del loro controllo sul territorio. Non è stata esattamente una riscossa. La Regione ha lasciato la legge antimafia amputata degli strumenti per incidere. Nel 2017 l’allora sindaco di Campolongo è arrivato a dare lo sfratto all’associazione “Affari Puliti” che gestiva la villa. Ci sono state polemiche e perfino denunce tra le stesse associazioni che è penoso riassumere.
Arriviamo a oggi: il municipio si arrangia con mezzi propri a mantenere l’uso pubblico dei beni confiscati alla mala del Brenta. «Non ho le cifre precise ma a spanne, tutto compreso, non superiamo i 5.000 euro di spese all’anno» dice il sindaco Mattia Gastaldi. «L’ex villa di Maniero funge da casa delle associazioni ma non è a loro uso esclusivo. Ci riserviamo una sala conferenze e una più piccola per riunioni. La usiamo anche per il doposcuola dei ragazzi. Nel parco c’è il museo della legalità, che ripercorre la vicenda mafiosa della Mala del Brenta, con le testimonianze su Cristina Pavesi, la studentessa uccisa nel 1990 durante l’assalto al treno della banda Maniero. A lei è dedicato un concorso letterario annuale, conserviamo tutte le opere premiate».
C’è una novità: l’anno scorso il Comune di Campolongo ha avviato il recupero di un’altra villa confiscata a suo tempo alla mala del Brenta, l’abitazione di Fausto Donà, braccio destro di Maniero. Era abbandonata da 25 anni, come il parco circostante, 5.000 metri di verde. Oggi il parco è recuperato e aperto alla cittadinanza, la villa ospita un centro diurno residenziale per persone disabili fornendo sollievo alle famiglie. Il recupero è costato 150.000 euro che il Comune non ha attinto al fondo di rotazione della legge antimafia, che continua a non esistere, ma partecipando e vincendo un bando emesso dalla sanità. Va da sé che intervenire dopo 25 anni non è la stessa cosa, né per la struttura né per i costi.
La vicenda di villa Rodella, già abitazione di Giancarlo Galan
Rischia di fare questa fine anche villa Rodella, la prestigiosa magione cinquecentesca confiscata nel 2014 all’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan dopo lo scandalo Mose e il
patteggiamento per corruzione. La villa affidata dalla Procura di Venezia all’Agenzia del Demanio ha subìto nel tempo l’incursione di vandali e ladri; inutili sono risultati i tentativi di alienazione, le aste sono andate deserte; impossibile anche la cessione gratuita al Comune di Cinto, nel cui territorio sorge la villa, perché il municipio avrebbe dovuto accollarsi l’ipoteca di oltre 900.000 euro che grava su una parte del fabbricato e non ha fondi sufficienti; alla fine il Demanio ha optato per l’affidamento in concessione. La gara all’inizio di quest’anno è stata vinta da un’associazione senza scopo di lucro, che pagherà una cifra simbolica annuale ma dovrà trovare i fondi per rimettere in funzione l’edificio e garantirne la conservazione nel tempo attraverso un uso adeguato. Non saranno costi leggeri e bisognerà farli quadrare.
L’esistenza di un fondo di rotazione regionale funzionerebbe come un’assicurazione. Ne viene una chiamata in causa per il governo regionale, in particolare per l’assessore alla legalità Cristiano Corazzari.
Facciamo il suo nome per il coinvolgimento diretto proveniente dalla delega, ma l’interessamento dovrebbe riguardare tutti gli amministratori regionali. L’approvazione della legge 48/2012 avvenne a suo tempo con il voto di tutti i partiti presenti in Consiglio. Una condivisione totale che dovrebbe rendere agevole completare oggi quanto deciso allora, cancellando almeno nell’ultimo anno della giunta Zaia un ritardo che non fa onore al Veneto. Qualcuno a palazzo Balbi può battere un colpo?