Lasciamo alla falsa morale di Putin il non voler (far) chiamare “guerra” quella che lui ha innescato in Ucraina. Le parole hanno la loro importanza e il dare il nome corretto alle cose delinea con chiarezza, senza lasciare margini al dubbio, di che cosa stiamo parlando.
Non bastassero i morti, gli sfollati, le case distrutte, gli aeroporti resi inutilizzabili, ci sono anche gli stupri sulle donne ucraine a ricordarci e a farci tener presente che quella che si sta svolgendo in Europa è a tutti gli effetti una guerra!
Ed è tremendamente amaro il constatare che il corpo delle donne, ora quelle ucraine, è ancora considerato terreno di scontro: invidia mai sopita di quel saper donare e creare vita, di quell’essere persona desiderosa di un suo percorso autonomo, di uno srotolare il proprio essere nella declinazione che più confà alla propria anima.
Non c’entrano nulla la fame di energia, i territori da conquistare, i confini da ridisegnare: sono i confini della donna, del suo essere anche madre ad essere violati, come se nello stupro ci fosse una rivincita e un’impronta maschile indelebile.
Di tutte le atrocità che si compiono durante le guerre, gli stupri rimangono come delitti efferati dove, paradossalmente, non scorrono solo lacrime e sangue ma anche la vita.
E che ne sarà di quel ventre che, spesso, poi cresce? Di quel peso morale e fisico di cui la donna deve farsi carico? Di quella vita che non ha colpe?
Ancora oggi, nelle guerre che qualcuno vuole chiamare “operazioni speciali” ci sono uomini che vedono nel corpo delle donne un terreno di conquista: quintessenza della violenza e dell’errato modo di essere e sentirsi uomo!