«Ho curato pelli bruciate dal sole e dalla benzina»

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Bartòlo al lavoro

In trent’anni ha visitato più di 350 mila migranti sbarcati a Lampedusa. Ma Pietro Bartòlo, medico responsabile del presidio sanitario e del poliambulatorio dell’isola delle Pelagie, preferisce dire 350 mila «persone». Classe 1956, lampedusano, sposato con Rita (anche lei medico). Le sue mani sono le prime a prendersi cura di chi, dopo aver affrontato il viaggio della speranza, arriva dal mare su questo piccolo lembo di terraferma. Per tutti è diventato il medico di “Fuocoammare”. Il docu-film di Gianfranco Rosi, Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 2016, in cui ha interpretato sé stesso. Un docu-film che racconta di un Mediterraneo che brucia per i morti in mare e di quella che è la realtà di Lampedusa. «Quest’isola di frontiera, alle porte dell’Europa, è l’isola dell’accoglienza» dice Bartolo, che abbiamo raggiunto al telefono mentre ha da poco terminato il suo turno al poliambulatorio.

Un’operazione di soccorso

Dottor Bartòlo, di Lampedusa se ne sente parlare sempre meno. Qual è la situazione sull’isola oggi?

«Di ciò che accade a Lampedusa ora se ne parla poco, quasi niente. Si sono abbassati i riflettori. Si vuole far credere che, grazie alle politiche messe in atto da questo governo, i migranti non arrivano più. Ma non è vero. Gli sbarchi continuano. Al contrario di ciò che proclama il Ministro Salvini, il porto dell’isola è sempre rimasto aperto così come l’hotspot. Questo, però, non viene detto perché non fa comodo a chi ha fondato tutta la propria campagna elettorale sull’odio nei confronti dei migranti e sul blocco dell’immigrazione. Così come si tace su ciò che accade nei lager libici. Gli accordi dell’Italia con la Libia hanno condannato migliaia di persone a subire soprusi, violenze, sevizie».

Cos’è cambiato nella sua vita dopo “Fuocoammare”?

«Nella mia vita nulla. Grazie a Rosi, però, tutto il mondo si è finalmente accorto di cosa stava accadendo a Lampedusa. Ho avuto la possibilità di far conoscere le tante, troppe, storie drammatiche che ho ascoltato in questi anni. Storie di persone come noi che desiderano solo sopravvivere, che affrontano un viaggio interminabile attraversando il deserto senza cibo né acqua, sopportando la miseria e i maltrattamenti. E che se sono fortunate non muoiono in mare. Crede che se stessero davvero bene nel proprio Paese sarebbero disposte a sopportare tutto questo? Non c’è nulla che li rende diversi da noi, se non il fatto che arrivano sulla banchina del molo in condizioni disumane».

C’è un episodio che l’ha toccata più nel profondo?

«Ce ne sono tanti. Ma voglio raccontarle quello di una donna che aveva subito così tante violenze da rimanere paralizzata. Pesava 35 kg, forse meno, stava molto male ed era accompagnata dalla figlia. Una bimba di poco più di 4 anni che inizialmente pensavo fosse un maschietto. Ogni volta che mi avvicinavo alla madre la bimba diventava aggressiva perché temeva avessi cattive intenzioni. Chissà quali oscenità aveva visto prima di arrivare a Lampedusa. Le ho dato dei biscottini da mangiare e lei li ha sbriciolati e li ha appoggiati piano piano sulla bocca della sua mamma. Riesce a immaginare cosa si prova nel vedere una scena del genere? Quando le abbiamo portate in ospedale a Palermo il personale medico ha dato alla bimba un giocattolo. Ne diamo uno a tutti, sempre. Quella bimba, però, ha guardato quel gioco con un tale disinteresse che ho capito che non era più una bambina. La sua infanzia, a soli 4 anni, era già finita».

Lei c’era anche il 3 ottobre del 2013 quando 368 migranti morirono al largo di Lampedusa.

«Me lo ricordo fin troppo bene. Tutti quei morti. Come si possono dimenticare i corpicini di quei bambini? Le mamme li avevano vestiti a festa, con le scarpette “buone”. Volevano far vedere che i loro figli erano come i nostri. Erano pronti per iniziare una nuova vita e, invece, quell’inizio si è trasformato in una strage».

Trent’anni in mezzo a tutto questo dolore sono tanti. La stanchezza e lo sconforto non prendono mai il sopravvento?

«Assolutamente si. Lo sa quanti morti ho visto? Quanti ispezioni cadaveriche ho dovuto fare? Io non tengo più il conto. E non ci si abitua mai. Di notte non dormo, ho gli incubi, piango per ore. Mi capita di vomitare per l’angoscia, mi sento depresso. A volte mi chiedo perché devo essere proprio io a vivere tutto questo. Ma poi..»

Ma poi?

«Poi ci sono altre storie, altri incontri che mi danno la forza di andare avanti. Un giorno stavo facendo una delle tante ispezioni cadaveriche. In uno di quei maledetti sacchi di plastica c’era il corpo di una donna. Eravamo convinti fosse morta. E, invece, il suo un battito cardiaco c’era. Debole, quasi impercettibile, ma c’era. L’abbiamo subito soccorsa e siamo riusciti a salvarla. Si è ripresa, è andata a vivere in Svezia e si è sposata. È tornata a Lampedusa per ringraziarmi e ho provato una gioia immensa. In episodi come questo trovo la forza. Capisco che non posso tirarmi indietro, che il mio posto è qui. E, poi, c’è la mia famiglia che mi sta vicino e che mi ricorda sempre che sto facendo la cosa giusta».

Per molte persone Pietro Bartòlo è un eroe.

«Non c’è niente di eroico. Sono solo un medico che fa il suo dovere. Un uomo come tanti, come quelli che sbarcano in quest’isola. Un uomo che ha fatto un giuramento e che ogni giorno cerca di fare del suo meglio. Lampedusa è un’isola di gente accogliente, è un’isola di pescatori e i pescatori accolgono tutto ciò che arriva dal mare. Prima di diventare medico sono stato un marinaio e sono stato anche io un naufrago, so cosa significa rischiare di morire in mare».

Se lo ricorda il primo sbarco a cui ha assistito?

«Si, era il 1991. Erano solo in 3. I lampedusani dicevano “Sono arrivati i turchi”, perché una volta sull’isola chiamavano così tutte le persone di colore».

Lei fa spesso riferimento alla “malattia dei gommoni”, di cosa si tratta?

«Si tratta di ustioni da contatto con benzina mescolata ad acqua, che si deposita sul fondo dei gommoni. Ad essere colpite sono principalmente le donne e i bambini che gli uomini fanno sedere al centro dell’imbarcazione per proteggere. Subito non provoca dolore, ma le conseguenze di queste ustioni sono mortali».

Lampedusa è stata definita «l’orgoglio dell’Europa». Quale futuro vede per l’isola?

«Ora temo che all’Europa Lampedusa faccia solo pena. Noi lampedusani abbiamo fatto quello che c’era da fare. L’immigrazione non dev’essere considerata un’emergenza, ma un fenomeno e come tale va gestito».

Ovvero?

«Le persone dovrebbero arrivare in Europa in completa sicurezza. Dovrebbero prendere un aereo, non dovrebbero mettersi nelle mani dei trafficanti. Non dovrebbero salire su un gommone in balia del mare. Io non dovrei stare sulla banchina a contare i vivi e i morti. L’unico modo per gestire questo fenomeno è aprire canali di immigrazione regolari. Non c’è altra soluzione».

Articolo tratto dal numero di domenica 24 marzo