Il male oscuro, che non conosce stagioni; il sentirsi estranei a una vita che non abbiamo scelto; l’indifferenza anche verso gli affetti più prossimi; il continuo tentennamento per ciò che può darci un po’ di tregua; l’illusione che solo la morte possa sanare ogni sofferenza… Ed ecco che “L’Airone” di Giorgio Bassani è oggi il mio umile consiglio di lettura.
Giorgio Bassani si, proprio quello de “Il giardino dei Finzi Contini”, che ispirò Vittorio De Sica, per il suo omonimo film, uscito nelle sale cinematografiche negli anni ‘70 (che deluse non poco lo scrittore, ma ci permise di sognare di fronte alla bellezza algida di una splendida Dominique Sanda!).
Diario dettagliato di una giornata (l’ultima?) d’inverno di Edgardo Limentani, ebreo per nulla ortodosso, di famiglia borghese, simbolo di una società decadente e decaduta, ma ancora detentrice di privilegi nella nuova “terra rossa” dell’Emilia del secondo dopo guerra.
Bassani, contrariamente alle sue abitudini, non è l’io narrante, ma ciò non gli impedisce di tallonare incessantemente il protagonista, spiandolo nei pensieri più intimi (persino nei suoi disagi fisiologici!), nelle pulsioni quasi sopite verso il sesso a buon mercato o altresì disponibile attraverso tradimenti da piccola provincia.
Siamo nella bassa padana, piena di fascino e malinconia. Ferrara, Volano, Codigoro sono il fondale dove l’autore riesce a farci sentire fino alle ossa quel freddo umido della sua terra con improvvisi squarci nella nebbia. E il sacro fiume, maestoso Po, in quella regione d’Italia che, dopo la liberazione si è arrogata il diritto di essere nuova e diversa, ma dove anche molte promesse sono state tradite: i padroni sono quasi tutti al loro posto; i poveri contadini sono ancora schiavi di una terra avara; persino i vecchi fascisti hanno trovato una nuova e comoda collocazione.
L’Airone rosso che viene inutilmente abbattuto (non da Edgardo, che durante la battuta di caccia non sparerà neanche una fucilata) è quasi un “parvenu” nel paesaggio fatto di cacciatori e prede e il suo distacco incredulo anche di fronte alla propria fine accresce la sensazione di solitudine del protagonista, che troverà tuttavia una inattesa serenità, scoprendo che la morte diventa meno spaventosa se si può osservare nella sua pace immobile, protetti da un vetro di separazione. Non ci ricorda qualcosa in questo periodo di isolamento?
Ho riassunto come sempre in tre tavole le tappe del romanzo: la caccia con il suo epilogo;
la morte osservata attraverso la vetrina e il saluto alla madre, quando a sera tutto è già stato preparato prima di compiere l’atto estremo (ma ci sarà davvero o sarà ancora la rinuncia dell’ultimo istante?). A parer mio Bassani non lo dà per scontato.
Ora permettetemi due consigli al di fuori della lettura del romanzo:
Se dopo questa quarantena (o ottantena o centoventena) deciderete per una gita a Ferrara dove, a mio avviso, vale la pena di tornare anche dopo una decina di volte, regalatevi una visita al cimitero ebraico. Anche qui vengono alla luce l’umiltà e il pragmatismo di Bassani nel disporre che la sua tomba sia posta nell’angolo più remoto, affinché che vi fa visita sia costretto a passare prima davanti alla tomba di tutti quegli ebrei, cui le cronache non hanno dato il minimo cenno.
Infine consiglio di provare una vera squisitezza del luogo, che è la “salama da sugo”, piatto antico, citato anche da Bacchelli nel suo romanzo storico “Il mulino del Po”.
E qui mi fermo sperando di non avervi tediato oltre misura.
Alla prossima e buona lettura!