Che i tempi non siano più quelli eroici in cui le rotative di un quotidiano animato da decine di reporter fissavano con inchiostro su carta rivelazioni da far tremare la Casa Bianca, come ci ha ricordato The Post di Spielberg, lo sappiamo bene. Il giornalismo tradizionale certamente è cambiato, probabilmente per sempre, con l’avvento del web e poi dei social – come anche Julian Assange con Wikileaks ed Edward Snowden con il Datagate hanno dimostrato negli ultimi anni.
Il punto è che dietro la notizia c’erano ieri e ci sono oggi, persone in carne e ossa. Le quali però, a causa dell’evoluzione tecnologica, rischiano di trovarsi in condizioni sempre più precarie e per questo sotto ricatto.
A questa straordinaria concentrazione di problemi, conseguente alla svolta epocale del giornalismo pre e post internet, è dedicato il rapporto The Status of Journalism in Europe, firmato a fine febbraio dalla socialdemocratica tedesca Elvira Drobinski-Weiss, membro dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa – organizzazione internazionale con sede a Strasburgo, e di cui fanno parte 47 nazioni tra cui Turchia e Russia.
In una ventina di pagine, il testo cita un ampio repertorio di casi diffusi in diversi Paesi europei per mettere in luce come l’evoluzione tecnologica rappresentata dai media online presenti anche un lato oscuro. Non si tratta soltanto del peggioramento delle condizioni di lavoro dei giornalisti, tra cui cresce il numero dei freelance e, anche in realtà nordeuropee dove il loro lavoro viene relativamente ben retribuito, il salario non sembra paragonabile a quello di professionisti con contratti regolari. Da noi, ad esempio, secondo dati forniti dalla Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) e relativi al 2015, il 65% dei giornalisti lavora come libero professionista: su circa 50.000 iscritti all’ordine, i dipendenti sono poco più di 17.000 (il 35%), un numero in calo costante dal 2009. Inoltre, 8 freelance su 10 dichiarano di guadagnare meno di 10.000 euro l’anno.
Il vero problema messo in luce dal rapporto Drobinski-Weiss è rappresentato però dalle ricadute di questa diffusa situazione di precarietà, che mette a rischio la qualità stessa di una professione vitale per la democrazia. Che ne è ad esempio, della verifica delle fonti e della possibilità di condurre inchieste in modo indipendente, tipica del giornalismo investigativo, se vengono a mancare le risorse? “Cercare informazioni dalla propria poltrona, basandosi su comunicati stampa non verificati o attraverso social network – si legge nel rapporto – ha preso il sopravvento sull’inchiesta a discapito della pluralità delle fonti”. Reportage e inchieste considerati purtroppo sempre più rischiosi (e dunque anche costosi), come dimostrano i recenti casi di Daphne Caruana Galizia – la giornalista maltese che seguiva la pista locale dei Panama Papers -, uccisa lo scorso ottobre e il giornalista slovacco Jan Kuciak, trucidato a fine febbraio per aver indagato sui rapporti tra mafia italiana e politica a Bratislava.
“È la prima volta che un organismo politico internazionale produce un documento sulla crisi del settore, che assiste al venire meno del modello tradizionale di finanziamento”, commenta da Bruxelles il segretario generale della European Federation of Journalists (Efj) Ricardo Gutierrez. Poiché i colossi del web, da Google a Facebook, hanno drenato i profitti pubblicitari della carta stampata, il rapporto del Consiglio d’Europa mette nero su bianco l’idea di redistribuirli, eventualmente attraverso una tassazione (l’Ue la propone al 3%) con i cui ricavati si potrebbe poi finanziare e sostenere il giornalismo di qualità, “vero antidoto alla disinformazione”
Il rapporto raccomanda anche agli Stati di proteggere l’incolumità fisica dei giornalisti, ma in questo caso le buone intenzioni si scontrano con la realtà. “Tutti gli Stati, tranne la Russia, avevano già firmato la raccomandazione del 2016”, osserva Gutierrez.
di Andrea Valdambrini, da Il Fatto Quotidiano