Sono passati 40 anni da quel 18 maggio nel quale Ian Curtis decise di porre fine alla sua vita. Il tempo trascorso è quasi il doppio degli anni che aveva vissuto.
Io considero quella decisione un’enorme perdita umana e non solo. Del resto quando qualcuno decide di non riuscire più a vivere è comunque una sconfitta. Ma la morte di Ian Curtis è stata una perdita anche per la musica, specialmente se si tiene conto del pochissimo tempo che ha avuto per esprimere tutto quello che aveva dentro. Un dolore fisico e mentale, certamente. Una sofferenza malinconica che esprime nelle sue canzoni, nei testi, nelle musiche che interpretava. Tristezza con improvvisi fremiti, scoppi, rumori mai fine a se stessi ma omogenei a quella forma di epilessia che lo tormentava.
La sua vita è stata una specie di viaggio nel tormento. La sua espressione musicale e poetica era qualcosa che avrebbe cambiato anche il modo di ascoltare una “musica giovane” che si privava di qualsiasi spensieratezza.
Il 18 maggio 1980, dopo una giornata (forse) peggiore di altre (o, magari, troppo simile a tutte le altre) Ian Curtis, vinto dall’impossibilità di continuare, si impiccò in cucina. Aveva 23 anni. Lasciò una figlia e una moglie con la quale aveva un rapporto problematico.
Ci ha lasciato poche canzoni (due soli LP con il suo gruppo “Joy Division“, il secondo dei quali uscito postumo), molta poesia, una malinconia che ti resta appiccicata addosso … E molti dubbi, pensieri, considerazioni su che “brutta bestia” sia il disagio di vivere. E quanto sia doloroso dover convivere con esso.