Il cinquantacinquenne marchigiano Alfredo Cospito, leader (si pensa) di Fai-Fri (Federazione Anarchica Informale – Fronte rivoluzionario), è stato condannato, in via definitiva, per due gravi reati: la gambizzazione di Rodolfo Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare e l’ attentato, con due ordigni esplosivi, posizionati in un cassonetto sito all’esterno della Scuola allievi carabinieri di Fassano (Cuneo).
Al Cospito è stata inflitta la condanna all’ergastolo, ai sensi dell’art. 285 c.p., a seguito della riformulazione, da parte della Corte di Cassazione, dell’accusa, in origine determinata nei suoi confronti, in quella strage contro la sicurezza dello Stato; egli, inoltre, è stato sottoposto al regime carcerario dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario (istituito nel 1986 dalla c.d. legge Gozzini, che comporta uno speciale regime di detenzione restrittiva, diretto ad evitare i contatti con l’esterno da parte del condannato), anche perché, a giudizio della magistratura di sorveglianza, Cospito aveva dimostrato di aver mantenuto, pur nel carcere, rapporti e scambi epistolari con l’organizzazione anarchica di suo riferimento.
Il caso dell’anarchico marchigiano è, ora, di grandissima attualità perché egli versa in gravissime condizioni fisiche conseguenti al prolungato sciopero della fame che aveva iniziato, da oltre 100 giorni, nella struttura carceraria di Bancali (Sassari), che ne ha causato la perdita di 42 chili di peso.
Per decisione del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Alfredo Cospito è stato trasferito (forse troppo tardi) al carcere di Opera (Milano), dove esiste un reparto ospedaliero interno particolarmente attrezzato, in grado di assicurare cure mediche specializzate.
Com’è noto, l’attuale Governo è per la linea della fermezza, adottata (ritengo, molto giustamente) dal Consiglio dei Ministri, proprio al fine di rendere palese la compattezza dell’esecutivo su un’importante questione di principio; se è vero che Cospito è un soggetto pericoloso che, oltre a rendersi autore, in prima persona, di attentati dinamitardi, suscettibili di ledere l’incolumità altrui, è anche in grado di proporsi come leader di organizzazioni che praticano sistematicamente devastazioni, in centri urbani, con l’uso dell’esplosivo, pare giusto che egli, come tutti gli altri terroristi e mafiosi di calibro, resti assoggettato al regime carcerario duro, per evitare suoi rapporti con l’esterno.
Gli anarchici che organizzano, non solo in Italia, ma anche all’estero, attentati sempre più pericolosi, pur se, spesso, solo dimostrativi, al dichiarato fine di sollecitare la revoca, per Cospito, del regime del 41 bis, non si rendono conto che finiscono, proprio così, per aggravare la sua situazione; lo Stato non può farsi intimidire dalle reazioni sconsiderate e pericolose degli appartenenti alla galassia anarchica, come di altri, e non può cedere a queste violenze. Revocargli il regime carcerario duro solo per le violente dimostrazioni di piazza di questi giorni sarebbe espressione di un inammissibile cedimento dello Stato ad anomale pressioni esterne e, quindi, segno di sua grave debolezza.
Cospito, poi, non può sostenere di voler continuare la sua battaglia, fino a lasciarsi morire, per difendere il suo diritto (come quello di ogni cittadino) ad esprimere le proprie opinioni; egli è stato condannato, in via definitiva, per reati molto gravi ed ha ampiamente dimostrato la sua pericolosità sociale. Il diritto di opinione non c’entra nulla e, certo, il condannato non può lamentarne una lesione, ai suoi danni, da parte dello Stato.
Ma, fin qui condivisa la linea ferma del Governo di non cedere alle pressioni e ai ricatti della galassia anarchica, per questo caso specifico, resta sempre il problema, anche etico, della compatibilità del regime carcerario del 41 bis (cioè, fine pena mai) con la nostra Costituzione, oltre che della sua concreta utilità per frenare la criminalità organizzata.
Personalmente nutro molte perplessità sul mantenimento, nel nostro ordinamento, di un tale regime, ritenendolo non realmente efficace ai fini della lotta alla delinquenza; ma, soprattutto, non conforme ai principi costituzionali italiani, che attribuiscono alla pena la duplice funzione di emenda, ma anche, e soprattutto, di rieducazione del condannato (art. 27 Cost.).
Una precisazione mi sembra doverosa: su tanti muri delle nostre città è, in questi giorni, comparsa soprattutto la scritta “Cospito libero”; sarebbe il caso di ricordare agli autori di tali imbrattamenti murali che il loro eroe è stato condannato all’ergastolo con sentenze definitive per gravi reati. Perciò, della sua liberazione neppure si potrebbe parlare, pur se fosse revocato il regime carcerario al quale oggi è sottoposto. Sarebbe meglio che gli autori di questo degrado urbano, almeno, studiassero un po’ più a fondo l’essenza del vero problema.