Sono 15 giorni che, tenendomene lontano per quanto possibile, convivo col Coronavirus a Conil de la Frontera in Andalusia e il fatto che locale ansimante wi-fi non mi aiuti a mettermi in pari con l’invio del mio diario è anche un buon alibi per nascondere quella pigrizia non della mente ma delle dita che per quaranta anni ho usato da giornalista a Vicenza e che ora non sempre sono al passo col piacere di raccontarvi la prima… quarantena della mia vita, per giunta in un luogo incantevole e incantato.
I passi della formica. Da una domenica all’altra, sono 15 ora i giorni di segregazione. Avevo cercato di contare con la App dello smartphone i passi che mi sono permesso fuori di casa nelle prime 172 ore di vita a Conil de la Frontera, fino a domenica scorsa, cioè. Calcolando che ero uscito tre volte per fare la spesa, due per gettare le immondizie e uno per andare in farmacia – l luogo più lontano da dove soggiorno – il conteggio era pari a 2.920 metri. Ma vi pare possibile che ciò sia salutare? Il mio programma (minimo) è di 12 mila passi al giorno e allora capite bene che nessuno potrà star bene in queste condizioni di staticità fisica. Per me la ginnastica domestica è più o meno un aperitivo e, checché ne dicano, io sono per il cammino a passo veloce e all’aria aperta. Fino a quando potranno negarcelo? Me lo chiedevo domenica scorsa e ora sono già passati altre 7 giorni
Racconto le luci del faro. Ogni sera, verso le 18,30, il faro di Conil, che sta nella punta est dell’ampio golfo che ha per opposto il pueblo e la spiaggia di Barbate (12 lunghi km di sabbia, con tratti di dune tipo la versione africana della Parigi- Dakar), inizia ad illuminare l’oceano e la costa. Con precisa alternanza, sul lato ovest, gli risponde l’altro faro, quello più noto di capo Trafalgar, a Zahara de los Athunes.
Qui in Andalusia il tempo della luce sfiora quasi le 20 (quando a Vicenza è già notte!) e in questa modalità di vita l’osservazione del tramonto sull’Atlantico e il gioco di luci dei due fari è diventato “il mio film serale”; un appuntamento fisso, che è sempre una prima visione. Mi hanno raccontato che fino al 2005 i due fari erano comandati a mano da due esperti faristi, dopo di che, con l’andata in pensione dei due, l’autorità di guardia costiera li ha tramutati in fari comandati in remoto (credo si dica così, non me ne intendo), cioè senza presenza umana ma solo tecnologica.
Alla fine degli anni 60, quand’ero giovane e anche scapestrato, ho conosciuto per una curiosa coincidenza il farista di Punta Palinuro. Si chiamava Ennio. Ed era un ragazzo calabrese sui 28-30 anni che, qualche tempo prima, aveva vissuto a Venezia, dove allora si tenevano i corsi per diplomarsi farista professionale.
Il ricordo di Ennio mi è ancora vivo perché allora, in una estate infuocata, mi dette da dormire e da mangiare per qualche giorno. Nei campeggi della zona, infatti, io, come altri giovani del settentrione, ero stato respinto: “non si accettano i ragazzi del nord”, stava scritto nei cancelli dei camping. Succedeva, Soprattutto, se, come nel caso mio, ci si vestiva freak e si girava zaino in spalla (altro peccato, si portavano i capelli lunghi lunghi).
Da allora, nel mio immaginario, ho identificato la generosa ospitalità di Ennio verso un forestiero come una delle qualità dell’Uomo del Faro. Quell’Uomo che sarà pure persona taciturna, più incline allo sciabordio del mare che agli stramazzi di piazza e dei bar, ma che nel silenzio del suo Faro, avvolto dalle piroette dei gabbiani, accoglie la vita degli altri, del forestiero che gli passa vicino. Ma quelli erano anni, anni Buoni. Sì. Forse. Ma chissà.
Alla prossima puntata, qui tutte
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L’articolo Il “Coronavirus andaluso” del vicentino Mascarin: la conta dei pochi passi, il racconto del faro e il ricordo di Ennio proviene da L’altra Vicenza.