Mai come oggi, in questo tempo di pandemia, nella distanza fisica, questa capacità e impossibilità di toccare la carne dell’altro assume valenza e valore di realtà e ci rende consapevoli che questo è il mio corpo, un corpo espanso, un corpo presenza.
Una delle riflessioni di maggiore interesse per quanto riguarda la dimensione della corporeità è insita nell’opera Le nozze dell’agnello, di Emmanuel Falque, testo disponibile in francese e non ancora tradotto in italiano. Per parlare di corporeità, Falque utilizza il termine di corpo espanso (épandu), intendendo con espanso una corporeità che non può essere semplicemente misurabile o funzionante, ma carnale, attraversato dagli eventi e dagli accadimenti del reale.
La prima percezione del nostro corpo, dunque, è quella di essere questo corpo, questa carne qui. E ancor prima della coscienza di questo corpo c’è l’abisso della propria corporeità. Non semplicemente l’essere razionali, non solo l’essere persone che provano sentimenti, ma prima di tutto un abisso indefinibile, un abisso che ci abita e da cui veniamo fuori attraverso la riflessione sull’esperienza, attraverso il coagulo di esperienze che affrontiamo ed attraversiamo nella vita.
Tuttavia, il corpo espanso, secondo Falque, non è solo questo corpo o non è solo la consapevolezza che io sono questo corpo. Infatti, la presenza massima del corpo a sé stesso è nell’essere questo corpo offerto/donato per te. Chiara la terminologia che Falque utilizza di matrice cristiana, tanto che le parole «Questo è il mio corpo offerto per voi» sono le stesse parole utilizzate da Gesù durante l’Ultima Cena. Infatti, la presenza del Corpo di Cristo è presenza erotica proprio in quanto presenza nell’altro, presenza dinanzi a noi che facciamo memoria della sua Passione, Morte e Resurrezione. La consapevolezza di dire: «Questo è il mio corpo offerto/donato per te» indica non solo la reciprocità della donazione del proprio corpo, ma anche la differenziazione erotica dell’essere per l’altro.
Se io sono questo corpo, non posso essere il corpo dell’altro. Neanche il corpo dell’amato o dell’amata, in quanto anche l’altro è un questo corpo che si offre, che si dona a me e che mi permette di essere riconosciuto, di riconoscerlo in quanto tale, in quanto questo corpo e, attraverso di lui/lei, riconoscere anche il mio corpo. In questo, dunque, si rivela la presenza del corpo. Scrive Annalisa Caputo nella rivista Logoi a proposito della riflessione di Falque:
La realtà (una presenza reale, una relazione reale) è un intreccio di forze. E perciò non è mai né solo soggettiva né solo oggettiva. E non si coglie mai solo in una dimensione quantitativa, estensiva, materiale. Ma sempre in una dimensione intensiva, dinamica, evenemenziale. Il dolore lo sa. L’amore lo sa. Se sto male, quella è l’unica cosa reale della mia vita. Il resto non esiste. È come se nel mio “corpo espanso” sul letto, in ospedale, si precipitasse e racchiudesse tutto il campo energetico della mia vita. Un buco nero. Se sto con l’amato, con l’amata, quello è il momento in cui avverto il mio corpo come massimamente presente. In cui raccolgo e sprigiono tutte le forze del mio campo gravitazionale. Come un asse che cattura tutti i fulmini, o una pala eolica che cattura e trasforma tutto il vento che c’è intorno. La realtà è condensazione di energia. Non perché il resto sia irreale. Ma perché non ha lo stesso “valore” di realtà. Perciò, come ci ha insegnato Nietzsche, la realtà è “valore”, e viceversa.[1]
La presenza reale del corpo, ripresa dalla tradizione cristiana, non è solo la consapevolezza che questo è il mio corpo, ma è anche coagulo di energie, tensione del corpo nella realtà, verso l’alterità. In questa chiave ermeneutica, dunque, possiamo riconoscere come il corpo espanso incontri l’alterità in una duplice dinamica, in una polarità che non può venire meno: toccare e non toccare. Il corpo espanso che siamo ha bisogno, desidera, cerca continuamente il con-tatto, l’essere presente all’altro nella carne e che l’altro sia presente con la propria carne. Per questo il toccare non implica solo il tatto, solo un senso, ma ingloba tutti i sensi, tutto il nostro corpo. E il contatto implica, al tempo stesso, il toccare e il non toccare, la possibilità di entrare in relazione e l’incapacità di fondersi completamente con l’altro. Riportati all’immagine biblica della Maddalena che cerca il Corpo Risorto di Gesù, Annalisa Caputo interpreta questa dinamica del toccare e del non toccare con: noli me tangere e voli me tangere. Continua Annalisa Caputo:
Il corpo tanto più si ritrova quanto più si perde, o tanto più si dona quando si abbandona”. Se perdo me stesso/a, dandomi all’amata/o (e arrendendomi), in realtà quello è il momento in cui più trovo me stesso, me stessa. L’abbandono è l’apice del dono, non il suo contrario. Nel corpo dell’altro/a ricevo quello/a che sono. E questa consegna totale non fa sparire né me né l’altro/a, ma ci trasforma entrambi. Voli me tangere!, allora (ci sia consentita l’invenzione di questa espressione): perché, se ciò che non è assunto non è salvato, ciò che non è toccato non è donato. Ma, insieme, anche noli me tangere!, perché il bocca-a-bocca, l’ad-ora-zione reciproca necessita di una continua de/assimilazione: rispetto della distanza e distanza del rispetto, che consente – nel peso della differenza – non solo il reale riconoscimento della dualità, ma anche la profonda riconoscenza del dono delle diversità.[2]
Voli e noli me tangere, volere e non potere toccare, dialettica di un desiderio che non si soddisfa mai completamente e dall’altra parte un desiderio che non cerca mai di essere appagato, ma sempre rinnovato. Questo è l’amore, questa dinamica che entra nella nostra carne, che ci espone nudi alla carne dell’altro, che “ci fa dono” sia nel senso di un dono donato sia di dono donante.
[1] A. Caputo, Questo è il mio corpo (épandu). Una decostruzione filosofica de Le nozze dell’agnello di Emmanuel Falque, Logoi.ph, VI(2020), p. 219.
[2] Ivi, p. 224-225.
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a cura di Michele Lucivero
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