Domani si apre a Glasgow la Cop 26, acronimo di Conference of Parties (la riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatic) saltata lo scorso anno a causa del Covid (qui tutti gli articoli della nostra rubrica “Il costo della transizione ecologica”). Per i media questa è l’ultima chiamata per poter prendere delle decisioni condivise sul clima. Del G20, che ha cercato di dare le linee guida alla Cop26, il sito Politico.eu ha già scritto che “quella del G20 è una questione di vita o di morte”.
Grande attesa, quindi, ma non è affatto detto che concluderà qualcosa. “Cop 25, niente accordo a Madrid. Ecco perché la trattativa è fallita”, scriveva nel dicembre del 2019 il Sole 24 Ore dopo la conferenza mondiale dell’Onu che precedeva quella in programma per domani. Soprattutto perché ogni nuovo vertice sul clima parte con gli arretrati delle promesse non mantenute.
I Paesi vulnerabili
A partire dalle promesse non mantenute fatte ai Paesi vulnerabili, ovvero chi più di tutti risentirà dei cambiamenti climatici. Ciad, Bangladesh, Niger, Haiti e la Repubblica centro-africana, ma anche molti altri paesi dell’Africa, sono in pericolo perché hanno meno capacità di far fronte all’impatto del surriscaldamento climatico. E per questo già nel 2009, durante la Cop15 di Copenhagen, era stato assicurato di arrivare a versare 100 miliardi all’anno, entro il 2020, per sostenere l’adattamento alla crisi climatica dei paesi in via di sviluppo e favorirne la transizione ecologica. Ma ancora nel 2019, secondo le stime dell’Oecd, i finanziamenti si fermavano a 79,6 miliardi di dollari. All’appello mancavano ancora 20 miliardi per arrivare ai 100. Cifra che, già di per sé, è il minimo indispensabile per ripagare i “loss and damage” climatici.
Le promesse, anche qui, non sono state mantenute. Anzi, l’obiettivo dei 100 miliardi è stato spostato al 2023. Tanto che a luglio 2021 oltre 100 paesi in via di sviluppo si sono uniti per firmare il rapporto «COP26 Delivering the Pais Agreement». Un piano di 5 punti che chiede ai paesi più ricchi di rispettare gli impegni presi e che venga assegnato un taglio delle emissioni di anidride carbonica in base alla responsabilità “storica” di quanto è stato inquinato. Anche perché i paesi già sviluppati – quelli che hanno inquinato per decenni e ora chiedono a tutti gli altri di ridurre le emissioni – si sono arricchiti. Gli altri in via di sviluppo come la Cina, invece, inquinano molto, sì, ma da meno tempo.
Gli Accordi di Parigi
Con gli Accordi di Parigi, invece, a che punto siamo? Non proprio bene. Dal 2015, anno della firma, al 2018 le emissioni di gas serra sono costantemente aumentate. E i paesi del G20 sono responsabili da soli dell’80% dell’inquinamento. Con questi ritmi, secondo l’Emission Gap Report 2020, la temperatura aumenterà di 2,7°C entro la fine del secolo. Mentre a Parigi ci si era posti il limite di aumento di 2 gradi, meglio se 1,5. Secondo gli esperti, se la temperatura nei prossimi anni si alzasse tra i 2 e i 3 gradi, una specie di insetto su 5 e un vegetale su 7 perderebbe metà del suo habitat. L’umanità come la conosciamo ora cambierebbe faccia.
L’unico paese virtuoso che rientra negli accordi del 2015 – a sorpresa – è il Gambia. Secondo l’analisi del Climate Action Tracker, il Gambia è l’unico paese ad avere un piano per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e dotarsi di energia proveniente da fonti rinnovabili. La Cina invece rimane il paese che inquina di più e sarà proprio Xi Jinping, al momento, uno dei possibili grandi assenti, se non tramite un collegamento video, della Cop26. La buona notizia è che Pechino ha promesso di arrivare al picco di inquinamento da CO2 entro il 2030 e punta a ridurre le emissioni del 65% entro il 2060.
A differenza della Cina, i leader di Russia e Brasile avrebbero deciso sul filo di lana di parteciperanno direttamente ai lavori della Cop26. Ma, nonostante siano i protagonisti del vertice, gli Stati Uniti hanno già fatto marcia indietro sul piano da 4.000 miliardi per il clima previsti inizialmente. Ora sforbiciati a 1.750. E questo basta a creare scetticismo sulla riuscita dell’incontro di Glasgow. L’Economist questa settimana è uscito con il titolo “Cop out”, un gioco di parole che significa «tirarsi indietro». Ma che suona più come un triste pronostico.