Nella scorsa puntata si parlava del “costo” in termini di inquinamento del digitale. Un soggetto che ha fatto del digitale la sua moneta è Satoshi Nakamoto, pseudonimo – probabilmente – di un gruppo di hacker che nel 2009 inventò il Bitcoin. Oggi è la moneta virtuale più utilizzata e vale tantissimo, soprattutto grazie agli investimenti di Tesla nel mondo dell’automotive. Ma sebbene non abbia un supporto materiale come il denar contante, le criptovalute inquinano molto, soprattutto per l’enorme richiesta energetica delle sue “blockchain”. (qui tutti gli articoli della nostra rubrica “Il costo della transizione ecologica”)
Come funziona la criptovaluta?
Non si creano con la carta, né con i metalli, ma un Bitcoin viene comunque da una “miniera”. Il processo attraverso il quale si crea una moneta virtuale si chiama «mining», che vuol dire estrarre. Coloro che forgiano queste monete sono detti «minatori» (ma senza il piccone). Attraverso dei complessi calcoli matematici, i minatori “estraggono” le criptovalute. Per questo processo non serve la forza fisica, ma un computer con un’altissima potenza di calcolo, in grado di recuperare il codice delle criptovalute attraverso la cosiddetta «blockchain», che letteralmente significa «catena di blocchi».
La blockchain è una sorta di libro contabile nel quale viene registrata la transazione con una di queste monete virtuali. Ma più transazioni si fanno e più sarà complesso trovare una combinazione che identifica il pagamento. Di conseguenza serviranno computer sempre più potenti e, quindi, energivori. Una volta completata la transazione, la criptomoneta è pronta. E di queste ne esistono molti tipi. Il Bitcoin è solo il nome di una di queste, quella che è stata fondata per prima. Esistono poi circa 1600 criptovalute quotate nei mercati: chiunque sia in grado di capire il meccanismo della blockchain è capace di creare la sua moneta virtuale. Ma solo poche sono regolarmente scambiate. Tra queste ci sono Ether (lanciata nel 2015 e nota anche e forse di più come Ethereum), Litecoin (2011), Eos (2018) e Neo (2014).
I problemi della moneta virtuale
Le criptovalute hanno molte caratteristiche che le rendono comode da usare. Ad esempio, non sottostanno a nessuna Banca centrale che le controlli e ne regoli l’emissione. Inoltre utilizzano tecnologie dette «peer-to-peer», ovvero le transazioni avvengono tra computer di utenti senza una struttura gerarchica. Questo però crea alcuni problemi. Le criptovalute sono spesso soggette a bolle speculative, ad esempio per il Bitcoin, che in pochi anni ha fatto esplodere (come pure implodere, ndr) il suo valore reale. Il 22 novembre, il Bitcoin segna un profitto del 270% rispetto al 1º gennaio 2020. L’altro problema è che la moneta virtuale è spesso intestata a degli pseudonimi ed è scarsamente tracciabile. Questo fa sì che un Bitcoin sia spesso utilizzato per riciclare denaro sporco oppure evadere il fisco.
Un esempio di quanto siano volatili i valori di questo sistema monetario arriva dalla storia recente. Tesla a febbraio ha annunciato il suo investimento nei Bitcoin per una cifra pari a 1,5 miliardi di euro come contro valore. Una notizia che ha fatto immediatamente crescere il valore del Bitcoin fino ad arrivare a 63mila dollari lo scorso 13 aprile. Dopo pochi giorni il fondatore dell’azienda, Elon Musk, fa marcia indietro e annuncia che bloccherà l’utilizzo dei Bitcoin per comprare auto Tesla. Risultato: la criptovaluta crolla del 10%. Il motivo della scelta di bloccare tutto? Il Bitcoin inquina troppo.
L’impatto ambientale
Uno studio ha infatti calcolato che se il Bitcoin fosse uno Stato, sarebbe il 26esimo paese più energivoro sulla faccia della terra. Ancora tre anni fa, nel 2019, l’Università di Cambridge ha stimato che le attività di mining in tutto il mondo consumino circa 120 terawattora all’anno, ma oggi il consumo di energia potrebbe essere salito fino a 147,8. Questo ha un equivalente in emissioni di anidride carbonica: solo il Bitcoin emette circa 23 tonnellate di CO2 all’anno, quanto lo Sri Lanka. Ma se si calcolassero tutte le altre criptovalute il livello di inquinamento raddoppierebbe. Si stima, ad esempio, che occorra un consumo medio annuo di 12.500 dollari per ricavare un solo bitcoin, che oggi vale quasi 50mila dollari.
Per ovviare a tutto questo inquinamento, si è cercato di trovare un sistema di moneta virtuale «green». Ad aprile 150 aziende di criptovalute, società finanziarie e organizzazioni no profit, hanno firmato il Crypto Climate Accord, ispirato agli Accordi di Parigi del 2015, per ottenere entro il 2030 la completa neutralità del carbonio. Tra gli obiettivi proposti c’è quello di sfornare criptomonete con il 100% dell’energia utilizzata dal settore delle rinnovabili. Molte fabbriche di mining di Bitcoin stanno già adottando fonti pulite per le loro attività, come il solare, l’idroelettrico, l’eolico e il nucleare.