La notizia che si legge nel sito dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro informa come, venerdì 7 agosto, siano stati 5 i lavoratori che sono morti a causa di infortunio nel luogo di lavoro. E come, nei tre giorni precedenti, ci siano stati altri 15 decessi simili. Una sequenza impressionante che porta a 341 il computo delle vittime da inizio anno (698 considerando anche i lavoratori morti in itinere).
È triste, ma giusto, ricordare che, da quando sono state allentate le misure di quarantena per le attività produttive (inizio maggio), i morti per infortunio nei luoghi di lavoro siano stati 181. Un dato che evidenzia come la riapertura delle attività produttive e la conseguente “ripresa” lavoro, seppur lenta e debole, abbia comportato un elevato aumento di “morti bianche”. Morti che non dipendono dal lavoro in sé ma dalle condizioni sempre più precarie che, generalmente, si devono subire per lavorare.
A tutti questi decessi si devono aggiungere le lavoratrici e i lavoratori morti a causa di Covid-19 contratto nei luoghi di lavoro. I dati diffusi da INAIL (monitoraggio al 31 luglio) ci informano che sono 51.363 le denunce di infortunio a causa del coronavirus (la maggior parte concentrata in marzo e aprile. L’incremento di luglio rispetto al monitoraggio di giugno è di 1.377 denunce) e che sono 276 i casi di morte.
Di fronte a questi numeri (che, si deve sempre ricordare, significano persone e non statistiche) chi dovrebbe agire è troppo spesso assente, indifferente. Non si ha notizia degli investimenti necessari a limitare, almeno in parte, queste tragedie. Non ci sono sufficienti controlli perché il personale ispettivo che dovrebbe attuarli è insufficiente (e resterà tale). Per la sicurezza nei luoghi di lavoro si invoca, al massimo, genericamente la “formazione”. Che deve essere fatta non si sa bene con che mezzi e con quali scopi. E da chi …
Così il tempo passa senza che avvenga nulla di concreto. Tutto viene rinviato alla prossima esternazione a posteriori della prossima tragedia.
A nessuno di quelli che dovrebbero fare, passa per la testa che sarebbe il momento di ripensare alla “questione lavoro” in maniera radicale? Che sarebbe possibile e necessario limitare la fatica di chi lavora, i tempi e i metodi di lavoro, aumentare le retribuzioni diventate insufficienti e, quindi, causa di competizioni assurde … e che bisognerebbe impedire che la sicurezza nei luoghi di lavoro fosse considerata un costo?
Certo, la soluzione più logica comporterebbe mettere al centro della “questione lavoro” le persone. le lavoratrici e i lavoratori, e non il profitto.
Ma questo è complicato perché significherebbe mettere in discussione un modello di sviluppo che si sta rivelando sempre di più inumano, pericoloso e sbagliato. Un sistema che non garantisce, a chi vive del proprio lavoro, né maggior benessere, né salute, né attenzione e cura dell’ambiente. In pratica, il futuro che sarebbe diritto di ognuno.
Un modello, il capitalismo, che garantisce grandi ricchezze solo a poche persone. E che si nutre di sfruttamento e discriminazione.
Un modello che, anche se ci fanno credere che sia l’unico possibile, appare sempre più spesso per quello che realmente è: spaventoso e irriformabile.