Il diritto di astensione dell’avvocato per ragioni di protesta collettiva: l’opinione dell’avv. Tito Bortolato

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Astensione degli avvocati
Astensione degli avvocati

Il diritto degli avvocati di astenersi dall’attività d’udienza per ragioni di protesta collettiva è da sempre oggetto di vivace discussione divisiva nell’opinione pubblica e anche all’interno della stessa classe forense.

Ciò dipende, in larga misura, dalla poca conoscenza dei numerosi precedenti giurisprudenziali che si sono nel tempo occupati di tale forma di protesta, così come dei dati normativi che oggi la governano.

A ciò si somma la criticabile considerazione che gli avvocati con la loro professione tutelano i diritti di soggetti terzi, i clienti, che potrebbero comunque subire un danno quando l’avvocato si astiene, anche per giustificato motivo, dal prestare la propria remunerata attività.

Il tema non è nuovo: già nel lontano marzo del 1961 per più giorni la stampa si occupò della diffusissima astensione dalla partecipazione alle udienze degli avvocati che protestavano per un corposo aumento delle tasse giudiziarie a scapito dei cittadini: i quotidiani ne diedero correttamente conto in più edizioni e su molte colonne, sottolineando l’interesse non corporativo sotteso alla protesta.

Si può fare chiarezza prendendo le mosse proprio dall’affermare la caratura costituzionale della professione forense, poiché la Carta ha sancito all’art. 24 Cost. l’inviolabilità del diritto di difesa al cui esercizio sono preposti gli avvocati, protagonisti del giusto processo regolato dall’ art. 111 Cost.

Essi dunque presidiano un diritto di rango costituzionale ed è lecito quindi domandarsi se possano volontariamente astenersi, per motivi di protesta, dallo svolgere tale alto compito finendo così per comprimere l’aspettativa del cittadino, altrettanto costituzionalmente protetta, di conseguire una rapida giustizia.

L’astensione collettiva degli avvocati e le conseguenze che ne derivavano sui processi non mancarono di formare oggetto di numerosi precedenti giurisprudenziali che si affacciarono, mutevoli nel tempo, ad ogni ricomparsa dell’evento.

Ma già la Cassazione penale nei primi anni ‘90 tratteggiò il principio che tale forma di protesta costituiva “l’esercizio di un diritto tutelato costituzionalmente” e le Sezioni Unite con la sentenza n° 10296/2002 sancirono essere diritto del difensore astensionista “quello di ottenere un differimento della trattazione della causa”.

La questione fu portata infine all’attenzione anche della Corte Costituzionale che, investita del tema dello sciopero nell’ambito dei pubblici servizi, con la sentenza n° 171 del 1996, riconobbe l’esistenza di “un’area connessa alla libertà di associazione che è oggetto di salvaguardia costituzionale” con la conseguenza che dovesse essere accordata tutela a quelle iniziative “che possono esprimersi anche mediante astensioni collettive dal lavoro volte a difendere peculiari interessi di categoria, non soltanto economici, e a garantire un corretto esercizio della libera professione”.

Il Giudice delle leggi argomentò inoltre che la salvaguardia del diritto di astensione collettiva degli avvocati non poteva escludere la tutela costituzionale dei diritti dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale, cui tuttavia non riconobbe una forza tale da comprimere quelli della classe forense.

Solo dopo tale sentenza della Corte Costituzionale venne introdotto nell’anno 2000 nella L.146/90 (sciopero nei pubblici servizi) l’art. 2 bis quale regola per l’astensione collettiva dalle prestazioni professionali dei lavoratori autonomi, finalizzata alla protesta o alla rivendicazione di categoria.

Il quadro va necessariamente completato aggiungendo che il diritto all’astensione può essere fatto valere solo nel processo, sia esso civile, penale, amministrativo o tributario, ma sempre nel pieno rispetto delle disposizioni del Codice di autoregolamentazione delle modalità del suo esercizio e di quelle del Codice deontologico, alle quali va rivendicata a tutto tondo la caratura di norme giuridiche.

Un passo della sentenza della Corte di Cassazione n° 20574 resa nel 2008 sottolinea con limpido argomentare il principio fondante il diritto all’astensione: “… il Giudice accoglierà la richiesta di differimento dell’udienza formulata dal difensore che dichiari di aderire alla astensione collettiva. Tuttavia, la ragione del rinvio sarà pur sempre l’esercizio di un diritto di libertà, il che è cosa del tutto diversa dal rinvio determinato da un impedimento. Quest’ultimo concetto indica una situazione in cui non v’è scelta, ma impossibilità di partecipare all’udienza”.

Ma ancor prima che fossero raggiunti gli approdi sopra citati, il Consiglio Nazionale Forense, in anni lontani, aveva già stabilito che “Il diritto di astenersi dalle udienze, come il diritto di non aderire alla astensione, sono istituzionalmente garantiti e devono essere esercitati liberamente dal professionista, né gli organi istituzionali dell’avvocatura possono intervenire sulla scelta operata se non nei casi in cui l’esercizio del diritto (di lavorare o di astenersi) si attivi con modalità tali da cagionare danni ai colleghi, ovvero costituisca violazione del dovere di solidarietà e porti discredito alla dignità e decoro dell’avvocatura” (Cons. Naz. Forense 27-09-1999, n. 130).

Questa breve nota non esaurisce il tema dell’annosa disputa, degno di ben più profonda e articolata trattazione, ma propone alcuni spunti di indagine e di confronto sul fenomeno della astensione collettiva degli avvocati quale mezzo di pressione riservato alla classe forense da sempre interprete e custode dei diritti della collettività.

La Corte Costituzionale, trattando il tema della protesta collettiva degli avvocati non ha mancato infatti di sottolineare quei “meriti storici che l’avvocatura ha acquisito anche fuori delle aule di giustizia, contribuendo alla crescita culturale e civile del Paese e, soprattutto, alla difesa delle libertà”.

Tito Bortolato avvocato