Tra fine 2013 e ottobre 2014 a una direzione territoriale lombarda della Banca Popolare di Vicenza arrivarono 65 ordini di vendere un totale di 43.543 azioni BpVi. L’ufficio avrebbe dovuto trasmettere subito le domande degli azionisti alla direzione generale, deputata ad attivare le procedure di riacquisto attraverso il Fondo azioni proprie della banca o a incrociare gli ordini di vendita con altre richieste di acquisto. Ma in 34 casi i documenti furono inviati dalla Lombardia al Veneto con un ritardo medio di 60 giorni lavorativi dalla data di ricezione e, in sette casi, oltre 100 giorni dopo.L’ordine di vendere un pacchetto di appena 101 azioni, ricevuto il 20 dicembre 2013, fu trasmesso a Vicenza il 17 settembre 2014: erano passati 194 giorni lavorativi.
I dati sono contenuti in un foglio excel creato da funzionari lombardi della banca, che Il Fatto ha visionato e che potrebbe contribuire a chiarire la vicenda degli “scavalcati“. Si tratta delle migliaia di soci della Vicenza i cui ordini di vendita di azioni BpVi furono rinviati per avvantaggiare altri azionisti. Il documento interno, rimasto sconosciuto all’ispezione della Consob sulla banca terminata il 25 febbraio 2016 con un verbale di 366 pagine e migliaia di allegati, dimostra l’esistenza di un primo anello locale nella catena di irregolarità condotte da BpVi sulle proprie azioni tra il 2012 e il 2015. L’unico file excel sulle vendite di azioni BpVi sinora noto era quello dell’ufficio Gestione operativa soci (Gos) della direzione generale, l’unità che preparava le pratiche per ottenere l’autorizzazione dal comitato soci e dal cda. Secondo la Consob quel documento era “l’unico strumento di registrazione elettronica delle richieste sulle azioni BpVi” e “svolgeva di fatto il ruolo di un vero e proprio ?registro ordini‘ ma risultava “connotato da un elevato grado di incertezza e rischio operativo, in quanto qualunque addetto del Gos” poteva “effettuare l’inserimento dei dati sul file, alimentato manualmente su base giornaliera e modificato in ‘sovrascrittura’ senza alcuna archiviazione periodica o backup“. La Vicenza inoltre non rilasciava al cliente copia dei moduli di vendita delle azioni “con conseguente impossibilità di attestare correttezza e tempistica dei dati, in particolare per quanto riguarda la data dell’ordine“, scrive la Consob.
In realtà, dunque, esistevano invece altri file interni che registravano gli ordini sulle azioni BpVi. Per la banca questo era un fronte caldissimo: dopo un primo aumento di capitale da 100 milioni nel 2013, nel 2014 la Popolare organizzò altre due operazioni di rafforzamento patrimoniale, una da 608 milioni tra il 12 maggio e l’8 agosto e un’altra da 300 milioni (che ne raccolse appena 102) che terminò il 19 dicembre. Le adesioni a questi aumenti sono elencate nello stesso file contenente gli ordini di vendita visionato dal Fatto. Una coincidenza non casuale perché proprio in quel periodo, come scrive la Consob, la banca si trovava “nell’urgenza di dover gestire contemporaneamente due necessità di segno opposto: la crescente richiesta di disinvestimento della clientela da soddisfare utilizzando il Fondo azioni proprie e quella di ‘svuotarlo’ per rispettare i nuovi vincoli normativi in vigore dai primi mesi dell’anno“. I vertici BpVi facevano scattare così la “campagna Svuotafondo” che, per la Consob, violò “la stessa norma interna che vietava alla banca di intraprendere azioni commerciali nei confronti della rete di vendita riguardanti le proprie azioni“.
Fu questo sistema a consentire alla Popolare presieduta da Gianni Zonin di dare la precedenza a 630 azionisti “privilegiati” nella corsa a vendere le azioni BpVi (illiquide e non quotate) quando queste erano ancora valutate all’iperbolica cifra di 62,5 euro. Un valore determinato non dal mercato ma da perizie commissionate dal cda e approvate dagli stessi azionisti. A questi “amici degli amici” fu concesso di rivendere alla banca un milione di azioni recuperando 62,5 milioni e scavalcando gli ordini di vendita di altre migliaia di soci, che non riuscirono a cedere i titoli prima del loro tracollo. BpVi sospese l’operatività in azioni proprie a marzo 2015 e il 25 giugno 2017 i titoli di questi soci finirono azzerati dalla liquidazione della banca insieme a quelli di altri 108mila investitori. Anche la conta degli “scavalcati” resta ancora un mistero: il 7 marzo 2017 la banca ne ha riconosciuti ufficialmente “meno di 500” ma altre fonti ne calcolano 8mila.
Un sistema reso possibile anche dal controllo serrato dei dipendenti. Alla Pop Vicenza, infatti, i dipendenti che non remavano nella direzione imposta dai vertici, anche a spese di clienti e soci, finivano male: le pressioni sulla rete di vendita erano asfissianti, le intimidazioni arrivavano a qualsiasi livello. In una riunione dell’ottobre 2014 nella direzione generale un manager “fece presente che i numeri sugli aumenti di capitale in corso erano diversi rispetto alle proprie evidenze“. Intervenne un dirigente “che con tono alterato affermò ?cosa stai dicendo. Se ci fosse qui Sorato (l’allora direttore generale, ndr) saresti già a casa’“, scrive la Consob. Non mancavano i delatori: dall’inchiesta penale emerge un’email, inviata il 27 gennaio 2015 alla segreteria del presidente Zonin, nella quale alcuni bancari segnalarono i nomi di “incapaci” e “incompetenti” da cacciare. Ne sa qualcosa un bancario lombardo che negli anni ha presentato a BpVi esposti, reclami e segnalazioni da whistleblower sulle irregolarità riscontrate: nonostante le leggi di tutela, la banca lo ha demansionato, richiamato, sanzionato e infine licenziato. La causa è in corso e anche la nuova proprietaria, Intesa Sanpaolo, non cede mentre Banca d’Italia si dice incompetente.
di Nicola Borzi, da Il Fatto Quotidiano