Il linguaggio plasma la nostra coscienza: l’oppressione genera il male? (II)

985

Adottando il linguaggio e l’universo simbolico di un gruppo sociale si finisce per pensare secondo gli schemi del gruppo stesso.

I gruppi sociali plasmano la nostra coscienza, sia nelle azioni ritenute positive sia in quelle ritenute negative. Per riprendere un’espressione di George Herbert Mead, l’io è un prodotto di un processo di costruzione collettiva e si può parlare, quindi, di una genesi sociale dell’io. Aristotele fornisce argomenti critici verso gli sviluppi successivi dell’analisi sociale. Seppur sostenendo che l’uomo è un animale politico, non rinuncia a elaborare nell’Etica nicomachea una morale che si basi sulla volontarietà dell’uomo: possiamo scegliere quali azioni compiere e, nonostante tendiamo naturalmente verso il bene, siamo liberi di compiere azioni intrinsecamente malvagie. Lo stesso Aristotele parla nel primo libro dell’Etica nicomachea di una caratteristica specifica dell’uomo, che trascende il contesto sociale, ovvero la razionalità. Questa intrinseca facoltà umana è stata pensata, da molti filosofi nel tempo, come la base per negare che tutte le azioni umane siano frutto del condizionamento sociale, naturale o di altro tipo.

Il pensiero cristiano, per esempio, mette in evidenza come l’uomo sia dotato della capacità di peccare, sostenendo, quindi, che possiamo liberamente scegliere il bene o il male. Per questo, chi sceglie il male deve essere punito, perché nonostante la possibilità di compiere il bene si è scelto il male. René Descartes postula l’io stesso come trascendente e come base innegabile del pensiero umano e di ogni possibile riflessione filosofica. L’interpretazione cartesiana supera la critica cristiana della genesi sociale dell’io, postulando l’identità personale come un assioma da cui far partire la filosofia.

Se esiste un individuo che, come quello cartesiano, è pre-sociale, allora almeno una parte della nostra coscienza non ha origine nello sviluppo naturale o nell’organizzazione dei gruppi sociali. Questa posizione non è però solo contro la genesi sociale dell’io, ma anche antidarwiniana, poiché la coscienza viene considerata con un’origine trascendente anche nei confronti dall’evoluzione naturale.

L’identità esiste prima del contesto socio-naturale in cui siamo inseriti?

Una prima osservazione critica alla teoria cartesiana dell’io può essere fatta considerando come esprimiamo la nostra individualità. Siamo noi stessi perché pensiamo e secondo Descartes questo è sufficiente per considerare l’io trascendente. Infatti, pensando, possiamo astrattamente liberarci da tutta la realtà e possiamo anche immaginare il nostro corpo come frutto di un’illusione, ma c’è una cosa che non possiamo eliminare se pensiamo: il linguaggio e il nostro universo simbolico. Il filosofo Ludwig Wittgenstein fece un esperimento mentale per sostenere la costruzione intersoggettiva del linguaggio e l’impossibilità di un pensiero puramente individuale. Wittgenstein immaginò una società nella quale le persone non sappiano il significato della parola scarabeo.

Se in questa ipotetica società viene data a tutti una scatola e viene detto che all’interno c’è uno scarabeo, allora nessuno potrà sapere cosa realmente significa quella parola. Si formerà però un significato sociale di quella parola, come risultato dell’interazione fra i diversi soggetti. Solo quando è possibile aprire la scatola e osservare lo scarabeo, allora si potrà costruire un’idea di scarabeo ben precisa e superare quel significato sociale costruito. Nel caso di concetti che non hanno una loro oggettività materiale come le idee astratte, si formerà solo un significato sociale condiviso, senza possibilità di riscontro empirico e influenzato dal contesto socio-culturale di quella comunità.

Adottando il linguaggio e l’universo simbolico di un gruppo sociale, si finisce per pensare secondo gli schemi del gruppo stesso. Il decostruzionismo di Jacques Derrida e le teorie linguistiche come l’ipotesi di Sapir-Whorf hanno sostenuto che la scrittura, e più in generale i simboli, influenzano la nostra costruzione dei pensieri e la loro elaborazione, essendo a loro volta prodotti della struttura sociale. La coscienza è quindi un prodotto socio-naturale e il nostro pensiero si basa sulla rielaborazione di dati empirici filtrati dal nostro modello interpretativo di origine collettiva.

Quest’articolo è la seconda parte di un testo scritto per la finale delle XXXI Olimpiadi di filosofia, intitolato: l’oppressione genera il male? (Qui la prima parte)


Qui troverai tutti i contributi a Agorà, la Filosofia in Piazza

a cura di Michele Lucivero

Qui la pagina Facebook Agorà. Filosofia in piazza e Oikonomia. Dall’etica alla città