Il macho slavo in guerra da 30 anni

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 Ma cos’hanno certi maschi slavi? Il maschilismo che diventa militarismo.
Per noi europei da mezzo secolo sono inconcepibili attrezzi trogloditi come carri armati, cannoni, fucili, bombe. Confini da espandere, frontiere da difendere, aerei civili da abbattere (Donbass, 2014).
La guerra. Come in Croazia, Serbia, Bosnia, Kosovo 30 anni fa. Oggi Russia e Ucraina.
“A est di Trieste cominciano i quartieri bassi del mondo”, mi disse sconsolato Luttwak nel 1992, commentando gli eccidi di Sarajevo e della ex Jugoslavia.
I film di Kusturica hanno reso comica, quasi surreale, la ferocia. E oggi fra orti e galline sono russi e ucraini a sgozzarsi. Eppure sono slavi anche Havel e Kundera, la civilissima separazione fra Boemia e Slovacchia, i ragazzi nonviolenti di Belgrado che nel 2000 cacciarono Milosevic.
E allora?

Putin è il massimo esemplare dell’arroganza del maschio slavo. Ma l’antropologia forse spiega più della politica. Perché assistiamo attoniti a un tale ritardo di civilizzazione, a 80 anni di sfasamento temporale fra Europa occidentale e orientale?
Azzardiamo un’ipotesi sommaria: distinguiamo tra slavi ex asburgici di religione cattolica e gli ortodossi sottomessi agli imperi ottomano e zarista. Classificare i primi come aderenti alla civiltà occidentale e gli altri a quella orientale, più rude, significa procedere con l’accetta. Ma chi attraversa i Balcani impara subito a riconoscere la linea di faglia fra la mitteleuropea Croazia e il sud levantino.
Il cibo del macho, poi. Troppo testosterone causato da alimentazione eccessivamente proteica? I danni dell’etilismo?

Nel 1992 andai per l’Europeo con Moroldo, il leggendario fotografo della Fallaci, in un convento di francescani croati che fronteggiavano col mitra i serbi della ‘kraina’ di Knin. Le kraine erano isole di territorio al confine ottomano che gli asburgici avevano riempito di soldati serbi, fra i pochi in grado di opporsi alle crudeltà turche.
“Non portarmi mai più in posti così”, mi intimò Moroldo, “ho visto guerre in tutto il mondo ma mai schifose come questa. Cominciano a spararsi alle cinque del pomeriggio, quando sono ubriachi. Non voglio crepare per un proiettile vagante”.
Insomma, a voler spiegare le ragioni della bellicosità di certi maschi serbi bosniaci e russi (o neonazi ucraini del battaglione Azov) si finisce in luoghi comuni e generalizzazioni.
Ma non possiamo neanche concedere dignità geopolitica o strategica ai capataz responsabili di Srebrenica trent’anni fa (Milosevic, Karadzic, Mladic), o che come Putin che da tre mesi e ancora in queste ore apparecchiano nuove stragi fra i civili di Bucha e del Donbass. Sono solo casi umani.
C’è una enorme questione di genere da quelle parti: “Non ci interessano russi o ucraini, lasciateci solo vivere in pace”, è il lamento straziato di una donna del Donbass. Di tutte le donne.

Mauro Suttora, giornalista, collaboratore Aduc
 

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Fonte: Il macho slavo in guerra da 30 anni

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