La polenta è sempre stata il cuore della casa veneta, il simbolo popolare della sua cucina. Nel Veneto si sono sperimentate tutte le variazioni gastronomiche possibili della polenta. Pochi sanno che i “Polentoni veneti o del Nord Italia” non sono gli esclusivi “tifosi” di tale ricetta, che ha i suoi albori nell’antichità mediterranea, a base di farro; solo con l’arrivo del mais diventa il primo vero piatto di base ed economico, in particolare negli ultimi due secoli, diventando la ricetta di riferimento e di sostentamento di molte famiglie italiane.
La storia della polenta: dagli antichi romani definiti “mangiatori di polenta” al “granoturco”
La polenta è un piatto arcaico, uno dei primi impasti cotti dell’umanità. Era certamente in uso già tra i sumeri e in Mesopotamia dove era preparata con miglio e segale. I greci utilizzavano la farina d’orzo e ne esistono infinite varianti a seconda delle materie disponibili sia in Africa che in Asia.
La versione classica si prepara cuocendo farina di cereali a grana grossa in acqua bollente salata. Nell’antica Roma era un cibo tanto comune che diede ai romani il nome di “pultiferi” ossia mangiatori di polenta (“puls”, polta). Al tempo si trattava di un impasto a base di macinatura di farro cotto in acqua e sale, servito con un contorno di ceci, pesciolini sotto sale (gerres o maenae), frutta, formaggi, verdure cotte e a volte carne. Similarmente è in uso ancora oggi in Puglia una polenta a base di fave secche con la quale si accompagnano verdure cotte come la cicoria.
Seneca (75 d.C.) nel criticare la sregolatezza dei costumi dei suoi contemporanei, attribuiva la crisi delle doti morali alla frugalità ormai persa e invocava la parsimonia veterum, ossia il tempo in cui i latini si nutrivano soprattutto di puls. Facendo riferimento alle commedie di Accio Plauto, Seneca scrive: “Pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum“, ossia: di polta e non di pane vissero per lungo tempo i romani.
Sembra che il famoso mais, “maihiz” chiamato da Colombo usando i termini degli indigeni del Nuovo mondo, sia arrivato nel Veneto attraverso i traffici veneziani con l’Oriente. Nel 1540, l’umanista Ruellius parla di mais portato dalla Persia in Francia.
Le prime coltivazioni si ebbero 30 anni dopo la scoperta dell’America, in Andalusia, per opera di agricoltori di origine araba, che la impiegavano per mangime animale. Dal Golfo di Biscaglia il mais si diffonde nel XVIII in tutta Europa e si espande lungo una fascia precisa, attraverso Spagna, Francia, Italia, Paesi danubiani, Ucraina fino al Caucaso. Il mais allora veniva chiamato granoturco. Ma perché “turco”?
Nel primo ‘500, il linguaggio comune chiamava “turco” tutto ciò che era straniero. Non c’è da stupirsi se così veniva definito il mais, anche se arrivava dalla parte del mondo americano. In Italia il “frumento a granelle grosse e gialle” (così lo chiamavano) ebbe la sua maggiore fortuna nel Veneto e nel vicino Friuli.
Fu Venezia a introdurlo nelle paludi del Polesine e nel Friuli. Secondo uno studioso, Giovanni Beggio, la prima seminagione “Made in Veneto” è datata 1554. Troviamo il suo nome nei “Promessi sposi” o nel titolo di una poesia a lei dedicata, “La polenta” del veneziano Ludovico Pastò o nei versi di Jacopo Facen, “Il mais e la polenta“. Tale pietanza viene elogiata anche in una poesia di Arrigo Boito ed in un sonetto di Carlo Porta. Ma non solo.
Vennero inoltre istituite delle accademie in suo onore, come quella dei “Polentofagi” di Pisa, che precedeva il circolo della polenta di Parigi, fondato a fine Ottocento da Jacopo Capòn e composto da uomini di affermato prestigio nell’ambito della letteratura.
La preparazione antica
La parola polenta conserva la sua origine latina “puls”. Allora la polenta era preparata con il farro e si condiva con il latte, formaggio, carne d’agnello o maiale e salsa acida. Era conosciuta nell’area mediterranea e lo scrittore gastronomo romano Apicio ci parla di “Puls punica” fatta con farina, uova, miele e formaggio fresco. Lo stesso autore ci riporta la preparazione delle “pultes julianes” con la spelta e il panico con l’aggiunta di olio, formaggio e sughi di carne. Nel “De honesta voluptate et valetudine” di Bartolomeo Sacchi scritto nel 1465 e primo libro di cucina stampato, ritroviamo la polenta di “farro” come piatto di comune diffusione.
La polenta: ricetta “italica”
Perché la polenta, alimento povero e umile ha conquistato i focolari popolari di tutta Italia?Il merito non è da attribuire solo agli invitanti condimenti, dal nord al sud della penisola, isole comprese, che vi vengono aggiunti, quali salsicce, legumi, parmigiano, i quali danno frutto ad un sapore deciso e appagante, ma anche all’opportunità che la polenta offriva in passato alla famiglia mangiando da un unico “piatto”. Questo uso fa affrontare il consumo del pasto con aria di affetto e piacevole ironia, che dà luogo a una sorta di concorrenza su chi riesce a mangiare più polenta e ad avvicinarsi, sempre più, verso il centro, parte ambita dove si concentrano i condimenti.
Unica ma diversa in ogni regione italiana
Esaltare le prodigiose virtù della polenta e citarne gli innumerevoli modi d’impiego è impresa prodigiosa poiché la polenta è cucinata perlopiù in ogni parte d’Italia e mettervi d’accordo tutti sul concetto di “buona polenta” sarà pressoché impossibile.
In Val d’Aosta la polenta diventa concia, cioè condita con formaggi fusi come fontina o toma. In Piemonte nella zona delle Langhe, la polenta si serve su un tagliere ed è accompagnata con salse dolci, uova e latte. In Veneto (Polesine, Trevigiano e nella zona veneziana) è la bianca sposa di piatti a base di pesce povero o di fegato, esaltati dal sapore più lieve del mais “biancoperla”, presidio Slow Food da cui si ricava questa farina. A Vicenza è servita nella sua variante dolce, accompagnata da latte, miele e frutta secca.
In Valtellina, in Lombardia, meno conosciuta ma altrettanto buona è la polenta cropa composta da farina gialla e grano saraceno cotti nella panna con patate schiacciate e formaggio di malga. A Varese: la polenta gialla è servita con straccetti di manzo cotti con lardo ed erbe aromatiche. A Como, come nel resto della Lombardia, la polenta è gialla, è accompagnata da croccantissimi pesciolini di lago lentamente essiccati.
In Trentino chiamano “carbonera” una polenta ottenuta con la farina gialla di Storo, compagno perfetto un sugo di salamino fresco, cipolla e formaggio Spressa a pezzettini.
Folgorazione emiliana è il nomignolo “cazzagai”: impossibile rimanere preda di un funesto destino quando si hanno nel piatto due meraviglie unite: fagioli (al sugo di pomodoro e pancetta) e polenta gialla. A Piacenza si mangia la tipica polenta piacentina con stracotto di carne, peperoni e pomodoro o selvaggina.
Nell’Appennino umbro è servita con guanciale e pecorino, viene cotta in forno o alla brace. Il granturco era difficile da reperire nell’Appennino toscano, per questo ancora oggi qui si prepara una polenta saporitissima fatta con farina di castagne e servita con formaggi o latte caldo.
Alla maniera del Lazio la mangeremo invece con le spuntature di maiale e con l’immancabile corredo del pecorino romano. Fino alla “carbonara” marchigiana, piatto dei taglialegna che alla dolcezza della polenta oppone la delizia rude di guanciale e pecorino.
In Puglia la polenta è tagliata a piccoli pezzetti ed è fritta fino a diventare croccantissima, diventa quindi un ottimo street food apprezzatissimo dai locali e dai turisti.Evidentemente il conio dell’aggettivo “polentone” non tiene conto dell’ottima polenta pasticciata campana: a Napoli, fredda e affettata a listarelle, diventa una lasagna se la si alterna a strati con salsiccia, mozzarella, sugo di pomodoro e parmigiano.
Nel Molise si prepara con una farina molto sottile ed è servita con i broccoletti stufati. In Basilicata, Calabria e Sicilia la polenta si serve con ricette di salsiccia e sugo, a volte è arricchita con patate lesse schiacciati. In Sardegna, invece, il pasticcio si fa con i sartizzu, pezzetti di salsiccia dorati in un soffritto di cipolla, prezzemolo e basilico.
Non si puo’ concludere questo gustoso itinerario se non con un breve passaggio del “l’Elogio e storia de la polenta de Arrigo Boito, citadin padovan iscrito all’Ordine dei polentoni” dal significativo titolo “La spatola, ossia l’arte de menar bene la polenta e de mettarghe el tocio. Allegoria de Arlechin Batocio moreto bergamasco e mezzo mato el qual la offre, dedica e presenta ai omeni politizi de Stato»
“Ecco: la spatola la xè el mio estro
la xè il mio genio, pronto e maestro;
e quel finissimo fior de farina
vol dir Rosaura e Colombina;
l’acqua broenta xè el nostro cuor,
e la polenta la xè l’amor.»