(Articolo su Caracol da Vicenza Più Viva n. 4, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
In via Crispi 46 c’è una palazzina dove vengono distribuiti pacchi alimentari, si somministrano cure mediche, si balla, si studia. Francesco Pavin spiega di cosa si tratta.
Dal settembre 2020, in piena pandemia Covid, a Vicenza è aperto il Caracol Olol Jackson, una comunità di mutuo soccorso e di mutuo aiuto. Parole che affondano le radici alla fine del 1700, quando nacquero esperienze di associazionismo volontario, per rispondere alle necessità dei lavoratori appartenenti ai ceti meno abbienti, che erano privi di qualsiasi forma di tutela, di previdenza o di assistenza.
Nella palazzina di viale Crispi 46, di proprietà dell’associazione Caracol, trovano spazio il banco alimentare e gli ambulatori popolari. «Due dimensioni di intervento su quella che chiamiamo “povertà”, ma anche sulla nuova povertà – spiega Francesco Pavin, tra i promotori del progetto e fondatori dell’associazione -. Da quando abbiamo immaginato questi servizi, la povertà è cambiata radicalmente. Vi accedono molte persone che non avrebbero mai immaginato di averne bisogno. Il Covid ha cambiato la situazione economica di molte persone, come di quelle 40 famiglie che assistiamo con i pacchi alimentari».
La distribuzione di pacchi alimentari è relativamente “semplice”, almeno dal punto di vista della gestione, non altrettanto quella di ambulatori medici.
«No, è molto complesso. Ad oggi, dopo tre anni di lavoro, abbiamo diverse specializzazioni, la dentistica- odontoiatrica, la ginecologia, la psicologia, il laboratorio psicologico,
l’ambulatorio ottico e il medico di base. E siamo arrivati a fare gli screening ai senzatetto per le malattie infettive e per l’epatite C. Abbiamo centinaia di utenti all’anno».
Sono attività che allo Stato costano (o dovrebbero costare) milioni di euro, come è possibile che ci riusciate?
«Tutto quello che viene fatto è su base volontaria. Sia il Banco alimentare che gli ambulatori sono gestiti da volontari. E non ci sono solo queste due dimensioni: ospitiamo gli avvocati di strada, laboratori sulla prostituzione e quindi sulla tratta. Insomma, lo spirito è quello del mutuo soccorso, che non è limitato al “pacco di pasta” o alla cura di una carie. E poi c’è il sindacato di base ADL Cobas, perché pensiamo che le lotte sul lavoro e sul reddito siano importanti quanto la salute e il cibo. C’è il lavoro sul diritto a migrare, con Welcome Refugees e con il collettivo Rotte balcaniche, quest’ultimo cominciato quest’anno in risposta ai nuovi decreti sicurezza. E c’è anche la parte artistica e culturale perché, passami la battuta, vogliamo il pane ma anche le rose. C’è la biblioteca, con una sezione dedicata alla letteratura di movimento; e poi c’è la parte sociale, con laboratori sul femminismo, il non binarismo, eccetera».
Nella palazzina, che è di vostra proprietà, c’è una comunità a 360°… Ma il pane e le rose costano. Come ci riuscite?
«La palazzina è stata acquistata con un mutuo. Non prendiamo soldi pubblici, partecipiamo a bandi e, quando vinciamo, gestiamo i fondi che ci vengono destinati per ottemperare alla finalità. Prevale la parte dell’autofinanziamento e della autotassazione. E poi c’è il 5 per mille. È molto difficile, soprattutto la parte sanitaria, perché richiede una grande professionalità: in questo momento abbiamo 50 volontarie e volontari tra medici e infermieri, una dimensione quasi enorme. Andiamo dalla catalogazione degli accessi, all’indirizzamento delle persone, all’accompagnamento».
È difficile fare una cosa del genere soprattutto in una città come Vicenza? Esperienze paragonabili a Caracol sono concentrate in grandi città, come Milano, Roma, Bologna e Napoli, culturalmente più aperte.
«Non lo so, perché noi non l’abbiamo fatto da nessun’altra parte. Non non abbiamo un metro di paragone, sicuramente è un esperimento eccezionale perché, per il momento, uno spazio autogestito e autofinanziato di questa complessità non si trova in altre parti d’Italia. Siamo in una rete con altri ambulatori popolari europei, ma non c’è una struttura così trasversale. Insomma, non è un esperimento vicentino, è un esperimento unico».
Caracol nasce da un’esperienza molto particolare, è una tappa del percorso iniziato con Ya Basta! (ndr: il centro sociale autogestito, occupato nel 1995, nell’area dove oggi sorge il Teatro Nuovo), poi proseguita con il Bocciodromo.
«Intendevo proprio questo quando dicevo che non è uno spazio di volontariato, è uno spazio politico, uno spazio che punta alla trasformazione della società. È uno spazio che non si riconosce nei partiti, nelle istituzioni quindi anche quando parliamo di costruzione di un modello di comunità, lo intendiamo dal basso, radicalmente. È uno spazio che nasce anche dall’esperienza di chi ha lottato contro la costruzione della nuova base Usa al Dal Molin. Una delle cose su cui facciamo più attivismo in questo momento è la battaglia contro il TAV, un progetto inutile, insensato, pericolosissimo per la nostra città. Un progetto di morte, non solo territoriale. Insomma, qualcuno potrà anche avere più soldi in tasca, perché il cantiere porterà in città centinaia di operai, tecnici, eccetera, ma quando vedremo i dati sulle polveri sottili, è probabile che il TAV porti anche qualcos’altro».
Caracol è intitolato a Olol Jackson, scomparso improvvisamente nel 2017. Cosa c’è di lui in questo progetto?
«Olol era un compagno, un amico, un fratello, e rappresentava la lotta dei movimenti sociali, politici, antagonisti, autonomi e libertari. In una città, in una realtà, in cui i libertari sono molto pochi. I lutti sono passaggi estremamente complessi e Caracol è un modo per ricordare questo compagno in una forma “non classica”. Mi spiego meglio: anni fa avremmo
costruito un progetto nel sud del mondo, in Sud America, da qualche parte. Ma la crisi economica e quello che sta succedendo in questo momento nel nostro Paese ci hanno portato a scegliere di fare Caracol proprio nella nostra città».