Senza stato. L’ostilità alle regole cavalcata dalla destra combinata con la crisi hanno spinto imprenditori e poteri locali ad aprire il territorio alla criminalità organizzata che offriva soldi e protezione
Invece di gingillarsi fra gli stand di Vinitaly, i leader politici accorsi a Verona il 15 aprile avrebbero potuto fare un salto a pochi chilometri di distanza, a Povegliano, dove era appena andato in fiamme un deposito dell’azienda di smaltimento rifiuti Sev 2.0.
Un rogo probabilmente doloso, come quelli che punteggiano il Veneto “babbo”: roghi di cartiere (la Rivalta di Brentino Belluno, il 14 aprile), cinema (il Cinergia di Rovigo, l’8 dicembre), depositi di materiale industriale (la Furegon di Mestrino, il 28 marzo; la MillDue di Riese, il 4 gennaio), centri carni (Mira, nel giugno 2017), ancora depositi di rifiuti (a Fossò nel 2016; a Rossano Veneto nel marzo 2017; a Vidor il 18 agosto 2017; a San Donà di Piave, il 23 aprile; una ventina in due anni).
Che il business della monnezza sia oggetto di loschi traffici è noto da tempo, almeno a chi ricordi il caso del padovano Franco Caccaro, in società dal 2005 al 2011 con Cipriano Chianese (condannato a Napoli a 20 anni per mafia e disastro ambientale), o quello del padovano Sandro Rossato, in affari con la famiglia calabrese Alampi per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, o quello del veneziano Stefano Gavioli, ben inserito nella gestione camorristica dei rifiuti di Napoli. Di queste devianze ha fatto le spese anche il territorio, martoriato dalle discariche abusive, e dai rifiuti tossici intombati financo nel materiale edilizio usato per i piloni dei cavalcavia.
Benché negata da molta politica e da una maggioranza dei veneti cullati nell’idea di una presunta diversità morale, la penetrazione della criminalità organizzata in Veneto è assodata anche a livello parlamentare, grazie alla relazione della commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, e alle denunce del deputato pd Alessandro Naccarato. Per raccontare il fenomeno ci sono almeno due modi. Quello più semplice (seguito da Mafia a Nordest di L. de Francesco, U. Dinello e G. Rossi, Rizzoli 2015, che parla anche del Friuli) segue la parabola cronologica che parte dal soggiorno obbligato al Nord di alcuni boss sin dagli anni ’70, e giunge alle contiguità mafiose della mala del Brenta (la sanguinaria banda di Felice Maniero, anni ’80 e ’90), fino al ritrovamento dei libri contabili del mandamento dell’Acquasanta di Palermo nel doppio fondo delle cassette del pesce che arrivava ogni settimana a Mestre al boss Vito Galatolo.
Ma è tempo di tracciare un quadro non solo giudiziario del fenomeno: è quanto fa, con documentazione e sobrietà davvero mirabili, il libro di G. Belloni e A. Vesco, Come pesci nell’acqua (Donzelli 2018). Si osserva che gruppi riconducibili al crimine organizzato mirano a inserirsi nel tessuto locale tramite l’innesto di singole attività illecite, piuttosto che non a prendere il controllo del territorio in modo diretto. A Verona la presenza di famiglie ‘ndranghetiste data dal lucroso spaccio di eroina degli anni Ottanta, in tempi più recenti i clan sono giunti (memorabile il servizio di Report del 2014) ad avere un’interlocuzione diretta con la politica – sono comprovati i contatti della famiglia calabrese Giardino, condannata per estorsione truffa e usura, con un assessore della giunta di Flavio Tosi, per la cui elezione erano stati mobilitati pacchetti di voti. Tuttavia, nemmeno in area scaligera è stata avviata una coerente opera di conquista del monopolio su certe attività produttive, come invece avvenuto in zone dell’Emilia o della Lombardia.
In molti casi non si può parlare di una vera attività estorsiva o vessatoria da parte dei clan su soggetti sani: soprattutto in ragione della recente crisi economica, è stata proprio una fetta dell’imprenditoria veneta a inseguire capitali per evitare il fallimento delle aziende, anche quando ciò comportava la perdita del loro controllo reale. Quando il campano Mario Crisci, dominus della società Aspide, epicentro di un sistema di usura in vigore nel padovano degli anni 2000, dichiara in tribunale di aver trovato in Veneto una humus fertile per attività illecite, non cerca di condividere le proprie responsabilità penali (verrà poi condannato a 20 anni in quello che rimane l’unico processo veneto di stampo camorristico): Crisci si riferisce a un tessuto di evasione ed elusione fiscale, di piccola illegalità diffusa e tollerata anche a livello politico, nelle cui maglie l’incursione delle organizzazioni criminali è stata facile. Qualche pestaggio, qualche incendio, qualche nome di boss lasciato cadere ad hoc: il resto lo hanno fatto le smagliature di un mercato sempre più “sregolato” e attento al profitto di breve periodo. Lo stesso mercato che ha accompagnato, cieco e muto, Veneto Banca e la Banca Popolare di Vicenza dentro l’abisso.
Come altro spiegare l’ascesa del calabrese AdM capace di imporre in pochi mesi un lucroso progetto immobiliare al Lido di Venezia? O il caso di Angelo Pitarresi, che esibiva a Conegliano la propria ricchezza derivata da un lucroso traffico illegale di lavoratori immigrati che gli imprenditori locali reclutavano a prezzi stracciati senza porsi troppe domande. E le fortune del “commercialista” parmense Paolo Signifredi, condannato per associazione mafiosa nel 2016, che aveva cumulato incarichi in 69 imprese di varie province del Veneto ed era diventato esperto in fallimenti pilotati per conto della ‘ndrangheta, intrattenendo stretti rapporti con il clan Grande Aracri al centro dell’inchiesta Aemilia. Questi casi sono emblematici di un elemento ormai costitutivo della penetrazione mafiosa in Veneto: il passaggio attraverso mediatori, facilitatori, notai spesso insospettabili e ben inseriti nel contesto locale, dediti al riciclaggio e alla speculazione distruttiva, ovvero all’acquisizione con soldi sporchi di imprese in difficoltà, messe poi in liquidazione per fagocitarne il patrimonio.
La retorica del far da sé, della svalutazione dello Stato in nome del privato, saldamente radicata nel Veneto guidato dalla destra, ha portato all’arretramento di istanze di controllo e direzione politica condivise. Quando la commissione Bindi conclude che in Veneto c’è “tanta omertà quanta al sud”, con la differenza che qui essa discende non già dalla paura ma da una comunanza d’interessi.
Per questo convince l’idea finale del libro di Belloni e Vesco, quella cioè di trattare, dopo tanti casi di mafia, lo scandalo del Mose di Venezia: una vicenda in cui la criminalità meridionale non c’entra, ma che ha rivelato un “sistema” del tutto omologo nei presupposti, anche se depurato dallo strumento della violenza. Nel Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico e monopolistico del più gigantesco investimento pubblico del Paese, si sono visti la concentrazione in poche mani dei poteri, l’abuso del project financing e della procedura d’urgenza senza gara, la creazione del consenso sociale (e culturale) attorno al progetto, la legittimazione (con appositi uffici) del nero e della mazzetta per oliare i controllori, la complicità degli imprenditori, l’assunzione dei figli degli amici, l’arruffianamento dei soggetti politici tradizionali, a cominciare dal presidente della Regione Giancarlo Galan.
È in questo laissez-faire di una società priva di ogni visione, che si annida il rischio più grande del Veneto futuro: non solo per ciò che si vede (l’urbanistica, i lavori pubblici, i rifiuti), ma anche – e forse soprattutto – per quanto riguarda l’invisibile, o indicibile, consapevolezza di sé.
di Filippomaria Pontani*, da Il Fatto Quotidiano
*Nato a Castelfranco Veneto (TV) il 10 marzo 1976, Filippomaria Pontani è professore associato di Letteratura greca e Filologia classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Oltre a vari contributi di filologia greca, latina e bizantina, ha prodotto un’edizione degli epigrammi greci di Angelo Polizia no (Roma 2002) e si è occupato della tradizione esegetica greca all’Odissea