Il piccolo “J’accuse” di VicenzaPiù, il grande “Cambiamo mestiere” di Travaglio: la libertà di stampa, questa (mis)conosciuta

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Nel piccolo, ma grande per noi, leggete qui: “Il j’accuse: quando diventano bavaglio le azioni legali contro i cronisti. Il caso di Giovanni Coviello“. Se nessuno, ripetiamo “NESSUNO”, a Vicenza e in Veneto è attaccato come VicenzaPiù, un network multimediale locale gestito da chi di mestiere fa inchieste giornalistiche, in Italia Il Fatto Quotidiano è il giornale (cartaceo, web e tv) più temuto da quando è nato per opera di giornalisti senza padroni e, quindi, più massacrato con querele e denunce fatte col puro scopo di farlo chiudere. Il Fatto è il più temuto e combattuto mezzo di informazione italiano ma è anche l’unico che ha il coraggio di denunciarlo.

Dopo “Io finirò in galera. Il prezzo della libertà di stampa di Antonio Padellaro“, tra i suoi fondatori, suo primo direttore e ora firma di prestigio, leggete ora “Cambiamo mestiere” del suo attuale direttore, anche lui tra i fondatori, Marco Travaglio.

Qualcuno scrisse, non ricordo chi, che non è vero che non c’è libertà in Italia ma a mancare sono gli uomini liberi. Ma noi domandiamo a costui: se “spunta” qualche giornalista libero, i fatterelli prima raccontati da noi e i fattacci urlati da Padellaro e Travaglio cosa sono se non un attentato alla, residua, libertà di stampa, contro la quale ha operato il vecchio sistema, che ora, è triste dirlo, trova sponda negli uomini del cambiamento a partire da Luigi Di Maio passando per un certo Alessio Villarosa e il suo collega leghista Massimo Bitonci?

Cambiamo mestiere
di Marco Travaglio, da Il Fatto Quotidiano 

Quando un Tribunale ti dà torto e sai di avere ragione, impugni la sentenza e speri che i giudici d?i secondo grado appello te la riconoscano. Così ci siamo sempre comportati, senza fare tante storie. Ora però la sentenza del Tribunale civile di Firenze che dà torto al Fatto (cioè al sottoscritto e a una brava collega), imponendoci di versare lo spropositato risarcimento di 95 mila euro a Tiziano Renzi e creando un precedente che mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale, ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori.

 

Perché abbiamo bisogno di voi. Fermo restando che, se l’esecutività del verdetto non sarà sospeso, pagheremo il dovuto e ci appelleremo per farci restituire i soldi fino all’ultimo centesimo e la nostra onorabilità. Che comunque non può essere messa alla berlina da manigoldi che si fanno scudo dell’impunità parlamentare e che, se le bugie fossero reato, sarebbero all’ergastolo.

Cari lettori, sapete bene di essere l’unica nostra fonte di sostentamento e il nostro unico scudo contro le aggressioni dei potenti: non incassiamo soldi dallo Stato, abbiamo pochissima pubblicità, non siamo sponsorizzati da società o concessionarie pubbliche né da aziende private. Viviamo delle copie vendute in edicola e degli abbonamenti, due voci che sono addirittura aumentate negli ultimi mesi, in controtendenza con il mercato sempre più in crisi della carta stampata. E finora questo bastava e avanzava a garantirci di lavorare sereni, forti del vostro sostegno e dei nostri bilanci attivi. Ma purtroppo, in Italia, fare un buon giornale, libero e indipendente, che incontri il favore dei lettori, non basta più. Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali “a strascico” sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze. Anche perché oggi – come dice Davigo – buona parte della magistratura è stata “genuflessa” dal potere politico come nei suoi anni più bui, dai 50 agli 80, fino a Tangentopoli e a Mafiopoli. Non siamo qui a gridare al complotto né a piagnucolare per la persecuzione giudiziaria. Anzi, se avessimo scritto qualcosa di falso e/o diffamatorio, come può sempre capitare in un quotidiano, avremmo già rettificato da un pezzo, senz’attendere che Renzi sr ci facesse causa. Ma non è questo il caso. Il signore in questione ci aveva intentato una causa da 300mila euro per sei articoli usciti fra il 2015 e il 2016: il giudice gli ha dato torto per quattro articoli e ragione per un titolo (a un articolo ritenuto corretto) e due parole contenute in due miei commenti (per il resto ritenuti corretti).

E ha stabilito che il titolo e le mie due parole valgono 30 mila euro ciascuno, più 5 mila di riparazione pecuniaria. Il titolo da 30 mila euro è “Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”. Riguarda le indagini (vere) sulla coop Castelnuovese, che ovviamente faceva affari, era stata appena perquisita e faceva capo all’ex presidente di Etruria Lorenzo Rosi, in affari con Luigi Dagostino, a sua volta in affari con papà Renzi (che non era indagato, e infatti il titolo si guardava bene dall’affermarlo). Tutto vero, eppure ci tocca pagare 30 mila euro. Le mie due paroline da 30 mila euro ciascuna sono “bancarotta” e “affarucci”. In quel momento Tiziano Renzi era indagato a Genova per la bancarotta di una sua società poi fallita, la Chil Post. Che la società fosse fallita non era in discussione (il crac è del 2013), mentre si trattava di stabilire se Renzi padre avesse commesso il reato di bancarotta (in seguito avrebbe ottenuto l’archiviazione, che naturalmente non riportò in vita la società fallita, anche perché altri coimputati sono a processo per quella bancarotta). Il crac c’era, la condanna di Renzi sr per bancarotta no: e infatti non ho mai scritto che avesse commesso quel reato, ma semplicemente che era coinvolto nella bancarotta di una società di cui era stato proprietario (e dove aveva assunto Matteo). Si potrà dire che il termine era “atecnico”, come si conviene a un articolo di pura satira (il titolo era “I babboccioni”, per dire il tono), non a una sentenza o a una cronaca giudiziaria. Invece il giudice ci vede una diffamazione da 30 mila euro.

L’altra costosissima parola proibita è “affarucci”. Anche qui tutto vero, e pure preciso: come avevamo scritto spesso nelle pagine di cronaca, insieme a gran parte della stampa italiana, il massone Valeriano Mureddu e babbo Tiziano sono vicini di casa a Rignano sull’Arno e il primo acquistò un terreno dal secondo. Un affaruccio, appunto. Che c’è di diffamatorio? Che – scrive la giudice – “in nessuna parte dell’articolo sia spiegato quali sarebbero tali ?affarucci'”. Cioè: i due hanno concluso un affaruccio, raccontato più volte sul Fatto e dimostrato per tabulas alla giudice. Ma è diffamazione lo stesso, perché lei avrebbe scritto l’articolo diversamente da come l’ho scritto io: altri 30 mila euro. Totale: 90+5 e un bacio sopra. Per un titolo e due articoli che non contengono fatti falsi e che riscriverei uguali altre cento volte. E sapete il perché di quella cifra spropositata? Per “la posizione sociale del soggetto diffamato (padre del Presidente del Consiglio, politico e imprenditore)”. Perbacco. Così la regola aurea che vuole i potenti più esposti alle critiche viene ribaltata: più conti e meno puoi essere criticato. Una specie di immunità contagiosa per via parentale. E ci è andata pure bene. La giudice spiega di averci fatto lo sconto perché siamo il Fatto, e non il Corriere della Sera che vende il sestuplo di noi: sennò ci avrebbe appioppato 600 mila euro, lira più lira meno (con tanti auguri ai colleghi di via Solferino). La sentenza fa il paio con quella del Tribunale penale di Roma che ci ha condannati a pagare la cifra astronomica di 150 mila euro (per fortuna non ancora esecutiva) ai giudici di Palermo che avevano assolto Mori per la mancata cattura di Provenzano. Avevo osato scrivere che erano andati fuori tema, invadendo il campo dei processi Trattativa e Borsellino-ter e negando il patto Stato-mafia e l’accelerazione della strage di via D’Amelio. Condannato. Poi le sentenze dei due processi han demolito quella su Mori, giungendo alle stesse mie conclusioni di 3 anni prima.

Ora, a botte di sentenze come queste, un piccolo giornale libero come il Fatto non può reggere: ancora un paio di mazzate come queste e si chiude. Perché non c’è alcun’arma di difesa. Possiamo prestare tutte le attenzioni del mondo a non scrivere cose false o inesatte. Ma se poi veniamo condannati per aver scritto cose vere o per aver esercitato il nostro sacrosanto diritto di critica, allora dovremmo preoccuparci anche di non disturbare certi manovratori, specie se hanno appena agguantato la vicepresidenza del Csm e fanno il bello e il cattivo tempo nella città del tribunale che ci giudica. E allora delle due l’una. O la classe politica mette finalmente mano a una seria riforma della diffamazione a mezzo stampa, dando valore alle rettifiche e alle smentite, imponendo cauzioni contro le liti temerarie, levando la competenza ai tribunali dove risiedono i denuncianti e soprattutto distinguendo i fatti falsi e gli insulti (che, senza rettifiche e scuse date con evidenza, vanno sanzionati) dalle opinioni critiche e dalle battute satiriche (che devono essere sempre legittime). Oppure noi smettiamo di scrivere cose vere e di criticare chi lo merita. Ma in questo caso verrebbe meno la ragione stessa del nostro mestiere, almeno per come lo intendiamo noi: quella che nove anni fa ci ha spinti a rischiare i nostri soldi e carriere per fondare un giornale libero, critico e veritiero. Di certo, visto che i soldi non ce li regala nessuno né li troviamo sotto le mattonelle, non possiamo scrivere ogni giorno con la spada di Damocle di risarcimenti pesantissimi sul capo, l’ufficiale giudiziario dietro la porta, la quotidiana busta verde nella buca delle lettere e l’avvocato tascabile che ci controlla le virgole. Certo, potremmo evitare tutto questo facendo come tanti altri: usando la lingua al posto della tastiera. O facendoci scrivere gli articoli da qualche giudice, per dire che chi fa fallire le sue società è un grande imprenditore un po’ sfortunato e chi compra terreni con un socio lo fa a sua insaputa. Ma non ne siamo proprio capaci. Piuttosto, preferiamo cambiare mestiere.