L’altra sera, intervistato da Corrado Formigli come la Pizia di Delfi in procinto di rompere le acque e sgravare l’oracolo, un tizio in evidente stato confusionale litigava con la grammatica e la sintassi italiane cercando di compitare qualche pensierino di senso compiuto. Era Vincenzo Boccia, nientemeno che presidente della Confindustria. E meno male che la qualifica era scritta nella didascalia in sovrimpressione, sennò uno spettatore distratto avrebbe potuto scambiarlo per un parcheggiatore abusivo in fregola di dottrine economiche. Questo tipografo ereditario salernitano ignoto ai più ascese due anni e mezzo fa alla guida di Confindustria a maggior gloria del renzismo, di cui cantò le lodi per qualche mese, fino alla débâcle referendaria del 4 dicembre. Avendo previsto un’epocale catastrofe per l’Italia in caso di vittoria del No, l’Italia conobbe puntualmente l’anno di maggior crescita degli ultimi 10 anni. Il che, parafrasando un celebre detto di Gianni Agnelli sulla Fiat, confermò l’unica legge davvero scientifica dell’economia nostrana: ciò che va bene per Confindustria va male per l’Italia, e viceversa. Basta rammentare i moniti, le geremiadi, le ricette per la crescita e lo sviluppo degli ultimi presidenti, da Abete a Fossa, da D’Amato a Montezemolo, dalla Marcegaglia a Squinzi fino a Boccia, per rendersi conto del loro terrificante potere jettatorio.
Appena benedicono una legge, è già certo che farà flop, mentre le uniche riforme che hanno qualche speranza di funzionare sono quelle che essi scomunicano senz’appello (cosa peraltro rarissima: fino a ieri Confindustria ordinava, i governi obbedivano, Confindustria elogiava e l’Italia sprofondava). Ora questi simpatici buontemponi con l’aquilotto nello stemma, il culetto al caldo e il cappello in mano sotto Palazzo Chigi, da sempre governativi nel Dna, si atteggiano a squatter emarginati e montano sulle barricate, manco fossero un centro sociale, solo perché han trovato un governo che non prende ordini da loro. Minacciano cortei e marcette, mandano avanti improbabili madamine, lanciano “manifesti”, inscenano “stati generali”. I loro giornaloni li hanno ribattezzati “Partito del Pil” e “rappresentanti di 13 milioni di italiani” (i loro sventurati dipendenti, mai interpellati da nessuno). Definizioni che devono metterli di gran buonumore, visto che la gran parte di loro il Pil ha contribuito a desertificarlo. Più che imprenditori (gente che rischia i propri soldi per realizzare idee innovative), sono prenditori (gente che intasca i nostri soldi per realizzare progetti pleistocenici).
Infatti, fra tutte le battaglie che avrebbero potuto ingaggiare per rilanciare l’economia, hanno scelto il Tav Torino-Lione: un treno merci da 20 miliardi, pensato trent’anni fa, che non serve a nulla perché dovrebbe affiancarne un altro che parte ogni giorno da Torino a Modane vuoto all’80-90%. Se si interpellano a uno a uno i soci di Confindustria, rispondono tutti che del Tav se ne infischiano. Ma Boccia se ne va in giro a spacciarlo per la panacea di tutti i mali, anche se fino alla marcetta della madamine ne aveva parlato due sole volte in vita sua. E ora mena vanto perché Salvini l’ha invitato al Viminale per un caffè (sono soddisfazioni). Il fatto più curioso è che qualcuno, ammesso e non concesso che riesca a capire cosa dice, lo prenda ancora sul serio. Confondendolo con la “rinascita della borghesia” o col “partito del Pil”. Negli ultimi vent’anni alcuni fra i maggiori azionisti di Confindustria hanno letteralmente distrutto le rispettive aziende, mandandole a picco o vendendole all’estero per manifesta incapacità ad amministrarle, malgrado l’assistenzialismo di Stato, i salari più bassi d’Europa e un sistema contrattuale ormai simile allo schiavismo. Da Alitalia a Telecom, da Parmalat a Cirio, da Merloni-Indesit a Loro Piana e Bulgari, da Sai (Ligresti) ai Riva (Ilva), da Mps alle altre banche decotte, dal crollo di Fiat-Fca nel mercato dell’auto al declino di Mediaset, giù giù fino alle memorabili imprese autostradali dei Benetton. Fate la somma dei buchi e avrete il calcolo di quanto ci è costato, in termini di Pil, il Partito del Pil. Uno sproposito, cui vanno aggiunte centinaia di miliardi di finanziamenti, provvidenze, rottamazioni, sgravi fiscali e prestiti-ponte (mai restituiti) pubblici.
Eppure queste Cassandre con le tasche degli altri continuano a predicare la “cultura della crescita” come se loro ne sapessero qualcosa. E come se l’Italia non fosse sempre sull’orlo della bancarotta proprio perché è stata sempre amministrata come le loro aziende. O come la Confindustria. Sotto la sfortunata presidenza Boccia, la confederazione degli industriali italiani s’è fumata definitivamente il suo giornale, Il Sole 24 ore, e s’è vista arrestare il presidente siciliano Antonello Montante, noto simbolo dell’antimafia finito in manette per mafia. Il Sole, da sempre in mano al Partito del Pil, ha accumulato 340 milioni di perdite in dieci anni, passando dai 570 milioni di fatturato nel 2008 agli attuali 220 e taroccando pure i dati sulle copie vendute e sugli abbonamenti. Intanto il Partito del Pil non si accorgeva di ciò che molti suoi soci, siciliani e non, sapevano da anni: e cioè che Montante, orgoglio e vanto della Confindustria “legalitaria”, trafficava coi mafiosi (contribuendo però almeno lui al Pil che, com’è noto, ora ingloba i proventi della criminalità organizzata: l’unico settore merceologico dove non ci batte nessuno). Ieri un povero deputato di Forza Italia, ergendosi a mosca cocchiera del fantomatico Partito del Pil, ha detto fra le risate generali: “Più Pil per tutti”. E tutti hanno visto il vero padre del Partito del Pil(u): Cetto Laqualunque.
di Marco Travaglio, da Il Fatto Quotidiano