Per qualcuno è un’ottima notizia, per altri pessima. Ma nel 2019 torna il Pd. Certo, ridimensionato dalle elezioni (che comunque ne fecero ancora il secondo gruppo parlamentare dopo i 5Stelle) e dalla successiva emorragia di consensi dovuta alla doppia scelta demenziale dell’Aventino e della rissa intestina quotidiana. Ma con un nuovo segretario (o Nicola Zingaretti o Maurizio Martina) e una nuova identità, che nasceranno dalle primarie del 3 marzo. Un appuntamento importante per tutti: sia per i 5-6 milioni di italiani di centrosinistra che non si sentono rappresentati dai giallo-verdi, sia per chiunque abbia a cuore la democrazia e quindi la normale dialettica fra maggioranza e opposizione.
La maggioranza c’è e ha superato, con tutti i pasticci e i ritardi che sappiamo, il giro di boa della prima manovra di Bilancio. È l’opposizione che non c’è: a destra c’è B. che non sa proprio cosa sia, abituato com’è – quando perde – a inciuciare con i vincitori oppure, le rare volte in cui non ci riesce, a comprarseli; e a sinistra c’è il campo di Agramante che vediamo da 9 mesi. Tra poco, almeno nel centrosinistra, ci saranno un leader e un gruppo dirigente in grado di giocare la partita. E di scegliere fra tre opzioni.
1) Il Fronte Repubblicano, ultimo travestimento del Partito della Nazione renziano, cioè l’ammucchiata sognata dall’Ancien Régime (non a caso evocata da Calenda, l’enfant gaté confindustrial-salottiero che ha appena fatto pace con Renzi e potrebbe seguirlo nel suo nuovo-vecchio partito), che dipinge la maggioranza giallo-verde come la reincarnazione del fascismo, senza distinguere fra Salvini e Di Maio, per giustificare un’union sacrée di quel che resta del Pd e di FI con la parte meno trucida della Lega (Maroni, Zaia, Fontana, Giorgetti), agitando il santino ormai logoro di Macron.
2) L’isolazionismo minoritario, settario e inconcludente incarnato da Martina, che non guarda a destra, ma condivide col Fronte Repubblicano la lettura del 4 marzo: un tragico abbaglio degli elettori che avrebbero premiato le due presunte “destre populiste” di M5S e Lega, identiche o speculari fino a diventare un unico monolite con cui non si deve parlare né ora né mai, ragion per cui il Pd sarà minoranza e farà testimonianza in saecula saeculorum.
3) Il timido pragmatismo di Zingaretti, che già quest’estate (con largo anticipo sui Gilet gialli) ha archiviato il mito farlocco di Macron e lanciato prudenti segnali al mondo 5Stelle: cioè si è posto, con tutte le cautele del caso per scansare i manganelli renziani, il problema fondamentale delle alleanze future.
Che dipendono da una seria analisi delle elezioni e dei cinque anni dei governi Pd-centrodestra. Renzi, Calenda, Martina & C. non possono ammettere che il Pd abbia sbagliato tutto, tradendo le politiche sociali, legalitarie e ambientaliste per berlusconizzarsi fuori tempo massimo, perché di quella mutazione genetica sono gli artefici o i complici. Invece Zingaretti, con tutti i suoi limiti, errori, tremori e zavorre, può farlo più credibilmente perché non è mai stato né premier né ministro, ma presidente prima della Provincia di Roma poi della Regione Lazio. E ora, da governatore senza maggioranza, sperimenta il neopragmatismo dei 5Stelle, con cui dialoga su alcuni temi comuni. Chi pensa che, se fosse eletto segretario, Zingaretti porterebbe subito il Pd fra le braccia dei 5Stelle per rimpiazzare la Lega, non sa di che parla (infatti questa è la caricatura che i renziani fanno di lui). In questa legislatura, quale che sia la sua durata, un ribaltone è altamente improbabile. Intanto perché Di Maio e Salvini sembrano aver ritrovato la sintonia perduta in autunno e nel 2019 dovranno mantenere le promesse-bandiera del reddito di cittadinanza e di quota 100. Eppoi perché Salvini tornando con B. perderebbe molti voti di opinione e neppure a Di Maio conviene mollare un partner malfamato ma ben definito per un altro ancora tutto da scoprire. E infine perché, con Zingaretti leader, Renzi&C. se ne andrebbero in un partitucolo che basterebbe a rendere i seggi del Pd insufficienti per una nuova maggioranza con i 5Stelle.
Ma un Pd che scende dall’Aventino e gioca la sua partita non potrà che movimentare una politica finora circoscritta entro il perimetro giallo-verde. Una nuova sinistra che gioca di sponda con la parte della maggioranza meno lontana da sé, s’incunea nelle contraddizioni giallo-verdi, appoggia misure su diritti sociali e civili, ambiente, legalità e beni comuni allargherebbe le crepe fra M5S e Lega e leverebbe a Salvini l’arma di ricatto che lo rende più forte di Di Maio: quella di essere l’unico a disporre di un secondo tavolo da gioco in caso di elezioni anticipate. Che vedranno M5S e Lega l’un contro l’altra armati. E costringeranno gli altri partiti a scegliere con chi allearsi: se non col meglio, almeno col meno peggio, nella logica proporzionale. Con chi andrà FI già lo sappiamo: con Salvini. Quel che non sappiamo ancora è con chi andrà il Pd. A questo servirà il congresso: a decidere se quel partito e i suoi 5-6 milioni di elettori resteranno ibernati nel freezer dell’irrilevanza a cui li ha condannati la linea vendicativa e rosicona di Renzi&C., o se torneranno a contare dopo avere finalmente accettato la realtà. E cioè il nuovo schema bipolare 5Stelle-Lega. Tutto dipenderà da cosa diventeranno: se resteranno il partito delle lobby e delle caste, della Confindustria, del Tav, del precariato e dell’impunità, saranno la stampella perfetta del centrodestra; se invece capiranno perché hanno perso in Italia mentre in Europa crescono i verdi, il giallo dei gilet e il rosso di Corbyn e Mélenchon, potranno persino tornare al governo prima di essere tutti morti.
di Marco Travaglio, da Il Fatto Quotidiano