Il valore delle parole conta, “Agorà. La Filosofia in Piazza”: Il ruolo linguistico della comunicazione istituzionale

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Il valore delle parole conta
Il valore delle parole conta

Il 2020 si è appena concluso e ci ha lasciato in eredità tutta una serie di parole nuove o rinnovate che sono entrate di diritto nella storia della lingua italiana. Da quest’annus horribilis l’italiano esce profondamente trasformato sia nel lessico – le edizioni 2021 di dizionari quali il Devoto-Oli e lo Zingarelli registrano centinaia di neologismi – sia nel contesto d’uso. Basti pensare a quante attività sono passate dalla modalità in presenza alla modalità a distanza. Il cambiamento di medium comunicativo (lo schermo di un pc, di un tablet, di uno smartphone) ha comportato la trasformazione della lingua orale in “parlato trasmesso” e della lingua scritta in “lingua digitata”.

Tutti questi fenomeni, nati dalla particolare situazione che ci siamo trovati inaspettatamente a vivere, hanno contribuito a ridestare l’attenzione nei confronti dei fatti linguistici. Ci siamo accorti che le parole hanno davvero un peso e sono capaci di orientare gli atteggiamenti della società[1].

Nei primi mesi dell’anno, quando ancora non si era identificato esattamente il virus Sars-CoV-2 e non si avevano gli strumenti per quantificare la portata del contagio, l’epidemia che iniziava a diffondersi è stata definita “influenza cinese”, con due conseguenze principali dal punto di vista della percezione linguistica: l’aggettivo “cinese” dava la sensazione di qualcosa di lontano e non di una minaccia incombente; il sostantivo “influenza” rimandava ad una malattia già nota e considerata non grave nel sentire comune, favorendo quindi un comportamento alquanto disteso.

C’è da riconoscere, tuttavia, che inizialmente le conoscenze in nostro possesso erano scarse e lo stato di emergenza non era ancora scattato, ma alcune delle espressioni linguistiche adottate in seguito, forse, si sarebbero potute ponderare maggiormente, riflettendo sul loro scopo comunicativo, come fa notare il linguista Giuseppe Antonelli[2]. Parlare di “misure salvavita”, invece che di “misure restrittive” o parlare di “distanza di sicurezza” invece che di “distanza sociale” poteva produrre un effetto diverso sulla popolazione. Si sarebbero evocati concetti già noti – presentati, inoltre, con un’accezione positiva – e si sarebbe raggiunto ugualmente lo scopo di mettere tutti in allerta.

Con la pandemia ha assunto maggiore importanza il ruolo informativo svolto dalle istituzioni (soprattutto politiche) ed è emersa fortemente la richiesta di chiarezza comunicativa da parte della cittadinanza. Tutti ci ricordiamo la querelle dei “congiunti”. Tale termine desueto è stato scelto, probabilmente, proprio per la sua vaghezza e perché i vocaboli “parenti” e “familiari” avevano un’accezione semantica troppo ristretta. “Congiunti”, invece, era una parola poco nota e, quindi, non confondibile, oltre che sufficientemente malleabile per arrivare a includere tutti i casi di “affetti stabili”. Allo stesso modo, “assembramento” è stato preferito ad “affollamento” per la necessità di indicare un numero indefinito di persone che si raggruppano non intenzionalmente.

Anche i bollettini e i comunicati medici riguardanti l’andamento dell’epidemia, talvolta, sono risultati poco chiari alla maggior parte dei cittadini, perché espressi con un vocabolario troppo tecnico e settoriale. Le competenze linguistiche di un parlante medio, infatti, non permettevano di comprendere appieno il messaggio trasmesso. Tale discrepanza tra la lingua adottata dagli emittenti (gli esperti del mondo della sanità) e la lingua padroneggiata dai riceventi (il resto della popolazione) è parsa ancora più profonda in un momento in cui le priorità dovevano essere la chiarezza e l’immediatezza informativa. In parte, esse sono state raggiunte quando le istituzioni si sono avvicinate al linguaggio dei social e delle pubblicità, servendosi di denominazioni che si sono trasformate rapidamente in slogan e in hashtag: è ciò che si è verificato in occasione dell’uscita del primo DPCM, nominato “Io resto a casa”.

Benché più approssimativa e orientata alla persuasione, questa modalità di comunicazione ha diffuso il messaggio in ampie fasce della popolazione. Nel corso dei mesi, comunque, il divario tra la lingua settoriale della medicina e le conoscenze tecniche degli italofoni si è progressivamente affievolito, poiché vocaboli in precedenza confinati a contesti specifici sono tornati improvvisamente alla ribalta nell’uso comune e quotidiano. Abbiamo imparato o rinfrescato il significato di “pandemia, tampone, plasma, mutabilità genetica, agente patogeno, focolaio, (a)sintomatico” e di tanti altri termini non solo medici, ma – di riflesso – anche sociali ed economici (da “ammortizzatore sociale” a “flessione economica”).

È proprio vero, quindi, che non tutto il male viene per nuocere: nel 2020, che ci lasciamo alle spalle, almeno abbiamo ampliato i nostri orizzonti linguistici nazionali, (ri)scoprendo le risorse dell’italiano, e internazionali, aprendoci in particolare agli apporti dell’inglese. Ma soprattutto abbiamo riconosciuto la necessità di curare la nostra consapevolezza linguistica, immensa fonte di ricchezza intellettuale.

[1] V. Gheno, Potere alle parole. Perché usarle meglio, Einaudi, Torino 2019.

[2] G. Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica, Laterza, Roma-Bari 2019.

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a cura di Michele Lucivero

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