(Articolo da VicenzaPiù Viva n. 6, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
Figlio di un sudanese e un’italiana, nato in Belgio ma cresciuto in Italia, Sanad arriva sotto i Berici per aiutare la Civitus Allianz Vicenza a centrare la salvezza.
Dal Belgio all’Italia, dal Tennessee a Monfalcone fino all’arrivo a Vicenza per dare un contributo alla salvezza della squadra di pallacanestro biancorossa, impegnata nel campionato di Serie B Nazionale, il terzo livello della palla a spicchi italiana. Il viaggio di Sami Sanad per arrivare all’ombra di Monte Berico è stato lungo, ma più che tortuoso e irto di pericoli come quello di Frodo e Sam nel Signore degli Anelli di tolkeniana scrittura, ha più somiglianze con Sulla strada di Jack Kerouac, per la voglia di imparare e di scoprire il mondo della pallacanestro, specie quella oltreoceano.
Nato nel 1998 in Belgio, 197 centimetri per 91 chili, Sanad è figlio di padre sudanese e madre italiana. Rientrato in Italia a cinque anni, non ha sempre giocato a pallacanestro: il suo amore per la palla a spicchi è nato solo dopo l’aver iniziato la sua carriera sportiva, praticando atletica. Quindi, a sedici anni, l’abbandono della pista in favore del parquet e una parabola che l’ha portato, dopo gli esordi tra Friuli e Oderzo, in America, al college, per
crescere come giocatore e realizzare il suo percorso di studi. Dopo quattro anni di basket universitario, Sami è rientrato a casa e, dopo aver iniziato la sua stagione a Monfalcone, a metà campionato si è spostato a Vicenza, alla corte di coach Cilio, per dare un contributo importante per la salvezza.
«Sono qui da nemmeno un mese» – racconta Sanad – «Mi sto ancora ambientando, ma sentivo che questo era il livello di pallacanestro a cui dovevo ambire come giocatore. Quando è arrivata la chiamata di Vicenza ho risposto subito presente e volevo venire qui a giocarmi le mie possibilità in un campionato di più alto livello».
Hai iniziato con l’atletica, prima di passare alla pallacanestro. Cosa ti ha portato a fare questo cambiamento?
«Sì è vero, da piccolo facevo velocità e salto in lungo in pista, anche mezzofondo occasionalmente. Tuttavia, volevo avere stimoli diversi: mi mancava il divertimento di uno spogliatoio e di compagni con cui condividere il campo. L’atletica è uno sport molto tecnico con allenamenti molto pesanti, individuali. Del basket, invece, mi aveva sempre affascinato la cultura e personaggi come Kobe Bryant e Allen Iverson.
In quel momento ho deciso che dovevo cambiare e sono passato alla pallacanestro».
Una carriera che ti ha portato velocemente in Serie C Gold, a Oderzo.
«La mia prima squadra è stata il Basket Cervignano, in provincia di Udine, vicino casa. Sono rimasto in provincia per qualche tempo ma Oderzo aveva già manifestato di volermi. Quando ho ottenuto la patente, ho finalmente avuto la possibilità di spostarmi e ho giocato la mia prima stagione tra i ‘grandi’, alternandomi con la Virtus Mansué. Da lì poi ho maturato la decisione di provare l’avventura collegiale».
Nasce da te quindi l’idea di andare a misurarti con gli universitari americani?
«Sì, fu una mia volontà. All’epoca contattai il mio procuratore e gli dissi che volevo tentare quest’avventura per alzare il mio livello e confrontarmi con un mondo diverso. Ci siamo messi in contatto con un college di NCAA Division II (il secondo livello del basket universitario americano, ndr), ma alla fine optammo per uno Junior College».
Di che si tratta?
Il viaggio di Sami Sanad: dal College basket a Vicenza per tenere la serie B Figlio di un sudanese e un’italiana, nato in Belgio ma cresciuto in Italia, Sanad arriva sotto i Berici per aiutare la Civitus Allianz Vicenza a centrare la salvezza «In sostanza, tutti i giocatori che non sono riusciti a ottenere una borsa di studio nei college più importanti, per motivi di voti o di possibilità, scelgono gli Junior College. Sono fondamentalmente delle vetrine da cui le altre università possono attingere per prendere giocatori, sono preparatorie all’ingresso nel mondo della NCAA. Così sono andato in Kansas, per provare quest’avventura».
Era molto diverso giocare in una squadra del genere, sapendo che l’obiettivo era riuscire ad entrare in un’altra università?
«Si viveva un clima diverso, in spogliatoio c’era meno affiatamento, anche se in partita si tendevano a cancellare questi atteggiamenti. Per la verità, da europeo, il mio problema principale è stato ambientarmi agli allenamenti: l’intensità e il trash talking (provocazioni, ndr) che si faceva in campo era altissimo anche tra compagni. Si trattava di competere secondo la cultura americana, che è piena di questi atteggiamenti: la volontà di dominare sull’altro, la mentalità di voler puntare sempre al massimo, sono molto tipiche di come ho vissuto lo sport là. Inizialmente lo subivo, ma dopo un po’ mi sono abituato».
Gli allenamenti, quindi, avevano ritmi da professionisti?
«Si, assolutamente. La preparazione per la stagione dura tantissimo, da agosto a novembre, quando inizia il campionato, e si fanno tre allenamenti al giorno: pesi la mattina, allenamento di squadra il pomeriggio e sessione di tiro la sera, mantenendo sempre questo livello di competitività altissimo, perché ci si vuole accaparrare un posto in quintetto. Negli Junior College questo stato portava anche a compromettere l’affiatamento di gruppo, anche perché bisognava confrontarsi con tanti ragazzi che avevano un grande ego, ma in America c’è anche molto questo concetto di ‘family’, famiglia, cioè che bisogna essere un gruppo in tutte le situazioni. Da un punto di vista organizzativo però era comunque il massimo: avevamo strutture per giocare e allenarci sempre a disposizione e ottimi professionisti al tuo fianco negli allenamenti, per gli infortuni muscolari e per la terapia».
La domanda sorge spontanea: ma c’era tempo per studiare oltre che allenarsi?
«Sì, anche con tre allenamenti al giorno riuscivamo ad andare a scuola senza problemi perché il college era attaccato alla palestra. La mattina facevamo pesi dalle 6 alle 7 del mattino e poi eravamo tra i banchi fino alle 14. Avevamo dei momenti prefissati per studiare dopo pranzo, prima dell’allenamento di squadra, e la sera, una volta finita la sezione di tiro. Certo avevamo ritmi serratissimi per fare tutto, ma come detto l’organizzazione era fantastica».
In cosa ti sei laureato?
«Ho una laurea in personal wellness and human health, tradotto in italiano diciamo ‘Nutrizionismo e scienze motorie’. Da quel punto di vista l’organizzazione dell’università americana è fantastica: ovunque tu vada ti porti dietro i crediti che hai maturato e non hai mai problemi nel passaggio da un istituto all’altro».
Quindi Kansas, poi Texas e infine Tennessee, a Milligan College, dove hai ‘chiuso’ col basket americano.
«Sì, la situazione era diversa lì perché sentivi molto di più la squadra e mi sono tolto molte più soddisfazioni. Lo Junior College era una vetrina, mentre a Milligan non avevamo la pressione di doverci mettere in mostra. Inoltre, c’erano ed erano passati altri ragazzi europei, alcuni che avevano giocato anche in Division 1. Gli spostamenti erano tanti e serrati per giocare in trasferta: bisognava fare tanto pullman e aereo, organizzarsi le proprie lezioni via Zoom o in registrata, però è stata una bellissima esperienza».
Immagino però che al College ci sia tutta un’altra atmosfera di tifo rispetto alla pallacanestro professionistica americana.
«Sono stato a vedere sia partite di NBA che di NCAA e non c’è paragone: quando giochi al college c’è un’intera comunità che viene a vederti, dai compagni di classe ai professori fino ai genitori e agli abitanti del posto. Si crea un ambiente molto particolare, assolutamente non equiparabile con il mondo dei professionisti americani, dove i palazzetti sono molto meno vivi come tifo. Vengono tutti a vederti e, di conseguenza, tu vai a vedere tutte le partite degli altri sport».
Finito il tuo periodo americano, sei tornato in Friuli e poi sei arrivato a Vicenza. Cosa ti ha spinto a venire qui?
«Rientrato in Italia sentivo che il mio livello adeguato fosse una B1, ma non arrivò nessuna chiamata. Così sono andato a giocare a Monfalcone, in B Interregionale. Quando sono stato contattato da Vicenza non ci ho pensato un attimo: sento che questo sia il mio livello e voglio dimostrarlo con questa maglia, cercando di ottenere la salvezza già quest’anno».
Noi saremo in tribuna a tifare per voi!