Imane Khelif scandalo, ma per altri motivi. Monti su Repubblica: “è donna che deve subire trattamenti medici per gareggiare”. ViPiù concorda

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Sul ring Angela Carini e l'algerina Imane Khelif (a destra)
Sul ring Angela Carini e l'algerina Imane Khelif (a destra)

Il caso di Imane Khelif, la pugile algerina oggetto di roventi polemiche alle Olimpiadi Parigi 2024 e, di riflesso, in Italia per il ritiro contro di lei della nostra pugile Angela Carini (“potevo farmi male” perchè i suoi colpi – maschili? – erano troppo pesanti?) perché erroneamente identificata come “trans” dai media e da “alcuni” politici, dovrebbe fare scandalo, ma non per le ragioni addotte a sostegno della sua esclusione o del rifiuto delle sue avversarie di combattere contro di lei. A sostenere e argomentare questa tesi, su cui concordiamo, è il collega Andrea Monti su Repubblica.it.

Il vero scandalo, dice Monti e noi con lui, è che, in nome del “fair play”, una donna— perché Khelif è una donna — è costretta a subire trattamenti medici per “rientrare nella normalità” e non “ammazzare la competizione”. Khelif, infatti, è iperandrogina, producendo naturalmente una quantità di testosterone superiore alla media femminile. Questo le consente di ottenere prestazioni atletiche eccezionali, ma del tutto naturali e non alterate da sostanze esogene.

Non si tratta di doping, perché le regole sul doping sportivo puniscono l’assunzione di sostanze o l’utilizzo di metodi che alterano la prestazione sportiva. Il mondo dello sport, però, sembra considerare problematico un atleta che, per natura, sia troppo forte, alterando così il “level playing field” e riducendo la spettacolarità e il valore economico della gara.

«In altri termini – scrive Andrea Monti -, il mondo dello sport fa questo ragionamento: se la natura ti regala un patrimonio genetico eccezionale, questo non va bene perché se sei troppo forte vinci sempre tu, e quindi alteri il “level playing field” ma — viene da pensare in termini più pragmatici — vanifichi anche la spettacolarità della gara cioè il suo valore economico e pubblicitario. Dunque, è come se a un giocatore di basket troppo alto da non poter essere “stoppato” chiedessero di segarsi le gambe, o a un velocista troppo veloce di correre con le zavorre o, come nel caso di Caster Semenya del 2009 e di Dutee Chand del 2014 (rispettivamente sudafricana e indiana) di doparsi al contrario per ridurre le proprie prestazioni appunto perché iperandrogine».

Caster Semenya ha combattuto per anni contro i diktat della federazione mondiale di atletica, portando la questione fino alla Corte europea dei diritti umani. Tuttavia, la Corte ha evitato di emettere un verdetto storico sul diritto all’identità personale e al genere, confondendo il caso con quello degli atleti transgender e non affrontando il punto cruciale: è ammissibile costringere un essere umano ad assumere farmaci che ne alterano il funzionamento fisiologico per poter gareggiare?

Nel caso di Khelif, il trattamento ormonale richiesto per “normalizzarla” ha effetti collaterali simili a quelli sperimentati dalle donne che assumono contraccettivi orali. La sentenza della Corte europea, pur riconoscendo la mancanza di una reale possibilità procedurale di difendersi, ha deciso di non decidere se le norme sportive che impongono un trattamento sanitario obbligatorio siano corrette o meno.

«Nell’ordinamento giuridico (italiano) – aggiunge Monti – la castrazione chimica come pena per la commissione di reati sessuali non è mai andata oltre il livello di una presa di posizione politica. E cosa diremmo se il Parlamento approvasse una legge in base alla quale chi è troppo intelligente deve essere instupidito con i farmaci?

Le risposte a queste domande sono abbastanza ovvie, ma nel mondo dello sport intervenire farmacologicamente sul corpo e sulla mente degli atleti è una prassi, anzi, una regola accettata».

Resistendo alla tentazione di stigmatizzare il comportamento della Corte, è chiaro che la vicenda umana di Khelif, Chand, Semenya e altre atlete in situazioni di “non normalità” solleva questioni cruciali sul rapporto tra identità biologica, personale e giuridica. Questi casi impongono una riflessione su quanto il corpo di una persona possa essere considerato una barriera inviolabile, sia dagli Stati sia da organismi privati il cui scopo primario è il profitto.

A meno che nel tempo, e questa è una considerazione tutta di chi scrive, le Federazioni sportive non decidano di suddividere le categorie di chi gareggia (negli sport “marziali” ci sono le fasce di peso…) anche in base alle loro caratteristiche biologiche e, perchè no, neuronali: mille categorie non basterebbero.

E c’è chi si lamenta dell’Intelligenza artificiale e dell’esplosione dei gioci virtuali…