Immuni, la grande incompiuta dell’emergenza Covid italiana

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Immuni
Immuni

Doveva essere uno dei pilastri della “fase 2” per evitare un secondo lockdown. Invece Immuni è stata uno dei suoi più emblematici fallimenti. Persino il nome ormai è uscito dai radar, rimosso per manifesta inutilità dall’arsenale delle armi contro il Covid. E’ di qualche giorno fa la notizia riportata dal Corriere di un incontro avvenuto al ministero della Salute con il commissario straordinario Figliuolo che avrebbe avuto come tema anche il destino della famosa (o famigerata) app per il contact tracing, quella lanciata con grande enfasi ormai a giugno del 2020 e da tempo abbandonata lungo un binario morto. Ma per ora la app non sembra avere trovato una seconda chance.

Da dicembre l’applicazione è inchiodata poco sopra i 10 milioni di download. Quando fu lanciata si disse che per funzionare doveva essere installata almeno dal 60 per cento della popolazione. Sotto tale soglia di diffusione non avrebbe permesso di intercettare i possibili contagi e di evitare di chiudere di nuovo il Paese. Dopo il boom iniziale e altri nove mesi siamo ancora sotto il 20% della popolazione, per l’esattezza al 19,5. Da settimane poi i nuovi download procedono al ritmo di 2mila al giorno. Che significa? Che per arrivare all’obiettivo, a questo ritmo, servirebbero 18mila giorni: 49 anni. Non è un caso se anche il numero di positivi intercettati finora è modesto. Su 95 mila notifiche, dicono i dati del ministero della Salute, gli utenti positivi che hanno caricato le loro chiavi sono 15mila.

Eppure, guardando le tabelle è evidente che quando la politica ha spinto per il suo utilizzo la risposta c’è stata. Se, ad esempio, dal grafico qui sotto si seleziona la voce ios_android è possibile vedere l’andamento dei download giorno per giorno. Sulla colonna verde che appare è facile notare la corrispondenza temporale dei picchi. Due in particolare si legano a specifici appelli: il primo risale al 2 giugno 2020, giorno del lancio della applicazione. E’ il momento di massimo affidamento, quando ancora in molti sostengono i benefici del contact tracing digitale ed è lo stesso Conte a dire: “Scaricatela con sicurezza e serenità”. In un solo giorno i download sono più di 659 mila. Il secondo invece corrisponde ad ottobre 2020: siamo ai primi acuti della seconda ondata ed è ancora il presidente del Consiglio a rivolgere l’appello: “Scaricarla è un dovere morale”. Rispondono in 240mila in un giorno. Ma è una fiammata che non si ripete. E anzi, da quel giorno la curva si appiattisce progressivamente fino ai 2mila download/giorno di queste settimane. Sappiamo come è andata a finire: utenti insufficienti, malfunzionamenti, procedure farraginose per denunciare la propria positività, progressivo abbandono del sistema di pari passo alla rinuncia, nel caso delle Regioni palese, al tentativo di portare avanti il tracciamento dei positivi e dei loro contatti stretti nella seconda e nella terza ondata.

Errori senza scuse
Il flop si poteva evitare? E di chi è la responsabilità? In realtà Immuni è caduta nel vuoto perché entrambe le sue gambe non hanno funzionato, impedendole di camminare e fare progressi. Sul fronte della tecnologia il primo scoglio è stato il funzionamento sui cellulari meno recenti. Dall’esordio di giugno 2020, l’app Immuni è stata disponibile su App Store e Play Store, ma i dispositivi sprovvisti dei servizi di Google sono rimasti esclusi. Solo lo scorso febbraio l’app è diventata disponibile per i modelli Huawei più recenti.
Il boicottaggio delle Regioni
E siamo alla seconda gamba zoppa: gli enti locali che anziché agevolare l’uso dell’app si sono opposti. I no-app avevano il volto di Matteo Salvini che il 13 ottobre dichiarava candidamente di non sapere che farsene. Il 14 ottobre, quando gli utenti erano 8,7 milioni ma già si capiva che il Titanic del tracciamento stava affondando, sul fattoquotidiano.it un’inchiesta ricostruiva quanti iceberg doveva evitare. Perché mentre da Roma si spingeva per superare le resistenze, le Regioni – perlopiù guidate da forze di opposizione – erano impegnate in un’opera di palese boicottaggio, perfino rivendicato nei casi della Lombardia e del Veneto, dove proprio quell’inchiesta permise di scoprire che da quattro mesi la regione di Zaia ometteva deliberatamente di adeguare il sistemi informativi regionali per far funzionare il tracciamento. Nel sistema informativo regionale non c’era neppure il “bottone” per attivare il registro. Toccava poi al personale delle Asl l’invio dei codici per segnalare il contatto con un soggetto positivo, mettendo così in moto il meccanismo di tracciamento fino alla notifica di “esposizione al rischio”. Ma il personale non era preparato né obbligato. Una settimana dopo l’inchiesta il governo tentò di correre ai ripari inserendo nel nuovo Dpcm una norma che obbliga le Asl a caricare sulla app il codice dei positivi al tampone. Ma anche questo non segnò la svolta.

Se neppure il governo ci crede
A onor del vero anche il governo Conte II ha le sue responsabilità. La riluttanza a usare l’app era sotto gli occhi di tutti da mesi, ma solo a dicembre, a sei mesi di vita del software, è stato istituito un call center Immuni per aumentare l’integrazione tra il servizio e le aziende sanitarie territoriali. Né l’operazione ha potuto vantare un sostegno politico forte, in un momento in cui le crepe dell’esecutivo iniziavano ad allargarsi. Nata sotto la stella del risparmio, con la tecnologia fornita gratis (dalla startup Bending Spoons e passata a Sogei) Immuni ha vissuto in ristrettezze anche dopo il varo. Basti dire che la sola campagna informativa varata dal governo, tramite il Dipartimento per l’editoria, è costata 29mila euro. E anche la Rai ha fatto poco o nulla, tanto da suscitare le lamentele dell’allora sottosegretario alla salute Sandra Zampa. Il call center? E’ costato 4mila euro. Tutto al risparmio, quindi. Ma con questa filosofia si è sprecata l’occasione di avere uno strumento in più per contenere l’epidemia e salvare persone

Second life o no?
Con questi numeri oggi cosa ha riacceso l’interesse? Dagli uffici del ministro Roberto Speranza confermano: “Ci sono allineamenti continui, si devono ancora chiarire delle cose”. Quali non è dato sapere. Non è un mistero però che le sensibilità nel nuovo governo siano diverse. Lo strumento non è mai piaciuto a Vittorio Colao che un anno fa, da capo della task force per la Fase II, dell’app diceva: “Se quest’estate l’avremo tutti o quasi, bene, altrimenti servirà a poco”. Così è andata, forse peggio. Sempre all’epoca del varo, Colao aveva espresso un’idea molto diversa da quella poi realizzata: per il futuro ministro, Immuni avrebbe dovuto funzionare con sistema di localizzazione Gps insieme all’uso dei dati mobili. Una scelta di efficienza che mal si sposa con quella fatta dai paesi Ue in piena prima ondata – sistema bluetooth, dati anonimi e indisponibili – per schivare le proteste nate in nome della privacy. E in questo contesto sa di beffa l’ok del Garante della Privacy che solo l’11 marzo scorso ha acconsentito a sbloccare la comunicazione diretta di positività da parte degli utenti in luogo di quella fatta dalle Asl e dai medici di base. Una funzione che, se attiva un anno fa, probabilmente non avrebbe influito nell’immediato sulle sorti della pandemia, ma avrebbe mostrato agli utenti le reali potenzialità della applicazione e avrebbe spinto a una più massiccia adesione.

Quel che è certo è che nemmeno questa novità ha attirato nuovo interesse. E anche la notizia di una second life resta lì: nessuno la rilancia, nessuno si sbilancia. Meno che mai dai ministeri interessati. L’ultimo a spendersi fu Domenico Arcuri: “La app Immuni – disse il 18 dicembre scorso – come performance è tra le migliori al mondo, non escludiamo di usarla anche per la campagna di vaccinazioni, ancora non sappiamo quale potrebbe essere la connessione, ma lo stiamo valutando”.

Thomas Mackinson sul Fatto Quotidiano