In Veltroni la corruzione del pensiero e della politica: quando si sono messi insieme bianco e rosso non è nato il rosa del socialismo riformista, ma un sbiadito rosé

318

Aveva ragione Ciriaco De Mita: “Due culture non si sommano, ma si comportano tra loro in modo dialettico. E sono contrario all’esperienza del Partito Democratico perché mettendole insieme ne ha provocato il silenzio.” Veltroni ha tentato a Ravenna le vie del padre nobile talentuoso, garantito da stipendio e vitalizio dacché era “ragazzo” (cioè dall’età di 49 anni), nonché da qualche pubblicazione fortunata e pasturata, ma il risultato è oltremodo modesto. Si ripresenta nelle feste deserte del partito democratico per raccattare qualche curioso, e per contribuire alla riedificazione di una base ideologica completamente dispersa dal renzismo. 
Il suo discorso però, limato e preparato nei minimi particolari, dimostra il vuoto a cui ci aveva preparato l’esperienza della sua creatura: il PD, come aveva già detto De Mita, è il silenzio.
Pare che gli aspiranti intellettuali si siano messi d’accordo nel citare Malvolio, personaggio de La dodicesima notte, chi nella versione della commedia shakespeariana, come Veltroni, chi in quella montaliana della Lettera a Malvolio, di una certa Antonella Botti, docente non si sa di che, nel suo appello “Intellettuali di tutto il mondo unitevi“. Ma entrambi gli intellettuali, però, volano talmente leggeri sui “problemi” della società, e con la presunzione di aver già da tempo decifrato gli interessi del cittadino, che non accennano mai all’Homo oeconomicus, non parlano mai di soldi, cosicché le loro politiche e le loro morali le raccontano ad una platea vuota.

Intanto Veltroni ha paura delle parole, “una volta impronunciabili e che adesso si rivelano“, ma non ha paura dei fatti che sono seguiti alle parole dei buoni, non vede la disperazione di coloro che aspettavano dalla politica, equità, opportunità, merito. Invece, carico della nostalgia di poter annunciare qualche minuto di raccoglimento, ecco che fa scaturire il lungo elenco di cose buone e toccanti: papa Francesco, il bambino di Aleppo, Alan e la sua maglietta rossa, il fratello Galip, John McCain, Ian Palach, la liberazione delle donne, i diritti civili, il rispetto, la correttezza nel linguaggio, il 34% del PD, centinaia di migliaia al Circo Massimo.

Non c’è niente da fare, la volta che si sono messi insieme bianco e rosso non hanno composto il rosa socialista e riformista, ma piuttosto il rosé, una colorazione sbiadita, un sapore, una moda, una tendenza nelle scelte, uno stile di vita che si è allocato stabilmente in un ceto sociale, ormai facilmente riconoscibile da chiunque.

Le analisi superficiali che terminano con le accuse di populismo, e le accuse di ignoranza al popolo dell’attivismo che non vuole più delegare a nessuno la sua valenza politica, sono incapaci di intercettare la sfiducia della gente nella sua classe dirigente, una classe ormai estranea che continua a dare indicazioni formali, ma che non mette mai in discussione i rapporti economici e sociali. Veltroni, che nell’avventura di rappresentare la congrega dei buoni ha seguito Francesco Rutelli – un altro rosé totalmente inabile a decifrare il Berlusconismo e pronto invece a fondersi con esso -, fa parte della generazione nata dallo smantellamento ideologico avvenuto nella sinistra a metà degli anni ’70, che ha ridotto la politica di quell’area a mera proposta di obiettivi di gusto, secondo generici consigli che venivano dalla cultura cristiana e liberale.

Non c’è, in tutto il suo discorso, un solo accenno di serio autodafé per la politica dell’ultimo quinquennio, nessun’analisi della sconfitta. A Veltroni non passa manco per la testa che l’elenco dei mali della società che va componendo non siano cose capitate a caso, ma chiari effetti delle politiche a cui in larga misura ha contribuito il suo partito. Non passano per la testa il ruolo, la dimensione e le prebende che spettano ad un rappresentante del popolo, che è tenuto a rispondere a tutti gli elettori delle scelte compiute e non solo agli imprenditori, alla finanza, allo spread, ai padroni della società. Non gli passa per la testa il progetto di democrazia compiuta che proprio in periodo di crisi si è fatto avanti in una sinistra in completa diaspora nel Movimento 5 Stelle. E senza logica né pudore tratteggia immediatamente il futuro di una sinistra che assicurerà alla gente dignità economica, sicurezza sociale, e democrazia effettiva. Per fortuna però riattacca immediatamente con le sue idee colorate, con i giudizi superficiali sulle politiche degli altri, e cancella questa panzana dell’asfittico fagotto sinistrorso.

Può allora produrre il meglio del pensiero rosé alleato del Capitale: “Il populismo, espressione comoda per indicare una politica che è destra, la peggiore destra… Chi sostiene il sovranismo in una società globale, chi postula una società chiusa, chi si fa beffe del pensiero degli altri e lo demonizza, chi anima spiriti guerrieri contro ogni minoranza, chi mette in discussione il valore della democrazia rappresentativa, altro non fa che dare voce alle ragioni storiche della destra più estrema. Altro che populismo. Qualcosa di molto più pericoloso.

Ecco le parole, ecco la corruzione del pensiero: il mix di lapsus e menzogna. Ecco l’incapacità di cogliere il valore della sovranità dei popoli nella globalità della finanza, di capire la difesa strenua dei diritti residui insidiati dalle politiche serve. Ecco il PD, vecchio e nuovo, alla ricerca di un nuovo volto, di un nuovo nome, che lo faccia mimetizzare in mezzo ad un elettorato ostile: una congrega di stipendiati da una dittatura mediatica che li sovvenziona e da cui prende ordini.