«Ogni giorno entro in un limbo senza tempo e senza luogo, un’altra dimensione. Fino a qualche settimana fa tutto questo era impensabile, inimmaginabile». Paola (nome di fantasia) è una giovane infermiera che lavora nel reparto di rianimazione del San Bortolo di Vicenza|. Chiede l’anonimato, non vuole protagonismi. «È come se parlassi per tutti i miei colleghi – dice -. Non chiamateci eroi, facciamo il nostro lavoro come lo facevamo un mese fa, con la stessa forza e dedizione». E si toglie un sassolino dalla scarpa: «Prima se mettevamo male un ago venivamo insultati, ora siamo indispensabili. Sembra che il nostro servizio venga riconosciuto solo adesso». Sì, adesso che abbiamo bisogno di loro, che le nostre vite dipendono esclusivamente dalla loro professionalità, adesso che rischiano la vita ogni giorno. «Dobbiamo proteggerci in continuazione, non solo dai pazienti, ma anche tra colleghi – spiega Paola -. Stare ad un metro di distanza, non sostare in cucina in più di quattro (cosa che comunque non avviene mai), non togliere la mascherina, avere la divisa sempre pulita. Indossare i dispositivi di protezione è un’arte, più lo fai meglio più ti senti sicuro».
I più faticosi sono i turni notturni di 12 ore: «I colleghi sono come alleati al fronte – spiega Paola -. Di notte l’attenzione cala e ci chiediamo a vicenda: “Ho indossato tutto correttamente? Controllami”». All’interno del reparto di rianimazione c’è una bacheca dove medici e infermieri attaccano biglietti e frasi di incoraggiamento che ricevono quotidianamente: «Quell’insieme di messaggi mi dà la forza per affrontare il turno giornaliero, mi scaldano il cuore, non mi fanno sentire sola» racconta. Ogni giorno al lavoro, la giovane lascia un pezzettino di sé. «Vivo da sola, mi mancano gli affetti. La routine lavoro-casa, casa-lavoro mi pesa molto perché non stacco mai, sto tirando fuori delle risorse che neanche sapevo di avere. Esco solo per la spesa. Un giorno in più che passo in casa sono 5 persone contagiate in meno. Mi raccomando, seguite le indicazioni governative. È sbagliatissimo pensare: “Io sono sempre stato bene, quindi non posso ammalarmi di Covid 19”. Non è così».
«Con i guanti, i camici, le mascherine si sudano anche i sentimenti – sottolinea l’infermiera -. I pazienti intubati vanno girati continuamente, un ciclo proni, un ciclo supini ed è faticoso». I colleghi sono diventati la sua famiglia. «Lo sono anche i pazienti, ma non se ne rendono conto perchè sono sedati». Alcuni non ce la fanno: «La morte è qualcosa che in questo reparto siamo abituati a vedere. Anche se è difficilissima da accettare, è comunque parte della vita». Quello che cambia è il modo in cui se ne vanno, da soli, senza un parente accanto. E purtroppo siamo solo all’inzio: «Di natura sono un’ottimista, se ognuno fa il suo dovere, ne uscriremo. È un prova per tutti. Ci servirà per apprezzare le piccole cose, abbracciarci avrà un sapore diverso».
Stesso ospedale, stessa professione, ma altro reparto per Simone, 28 anni. Lavorava in urologia quando gli hanno chiesto “Servono infermieri per aprire la seconda sezione di malattie infettive, vuoi essere in prima linea?”«Non potevo dire di no – confida -. È un dovere. La cosa più difficile è imparare un lavoro nuovo. Il virus è più cattivo e veloce di noi, non c’è tempo per l’affiancamento». Il paziente Covid-19 in malattie infettive è “complicato” da gestire: «Il “giro” comincia dai sospetti, fino ai casi conclamati. Le stanze sono da uno o da due». La “vestizione”, di cui ci ha parlato Paola, richiede tempo: «Pazienza e fatica – aggiunge Simone -. Visiera, camice, copriscarpe, due paia di guanti uno sopra l’altro, a volte anche tre. Sette ore di turno giornaliero e 10 la notte sono lunghe e non è così facile respirare con la mascherina». «Ogni settore – spiega Simone – ha tre infermieri di turno. Due entrano in stanza per l’igiene, il terzo rimane fuori e passa loro il materiale. Quando si esce si è contaminati, quindi è necessario cambiarsi con estrema attenzione. Occhiali e mascherina vanno disinfettati. Dobbiamo avere molta cura dei dispositivi perché cominciano a scarseggiare». Oltre all’igiene quella che Simone e i colleghi infermieri offrono nel reparto di malattie infettive è un’assistenza tecnica. I pazienti ricoverati Covid hanno problemi respiratori, febbre alta, tosse secca, stizzosa e hanno bisogno di ossigeno o comunque di assistenza respiratoria. «Dobbiamo quindi saper controllare le “macchine”» spiega l’infermiere. Contro la solitudine dei ricoverati l’ospedale San Bortolo ha messo a disposizione delle due sezioni di malattie infettive 99 tablet, 60 forniti dall’Ulss 8 Berica, 25 donati dalla Fondazione Mioni, nove dagli “Amici del Cuore” di Arzignano e cinque da Vicenza for Children. In questo modo, in particolare gli anziani, possono mettersi in contatto con le famiglie. «La mia professione è una passione – conclude Simone -. Questa è una battaglia da combattere tutti insieme, in tutta Italia». Per quanto riguarda la paura: «Sì, c’è. Ovvio che c’è. È anche vero, però, che il reparto di malattie infettive è il più sicuro: conosciamo chi è malato e chi è in attesa del risultato. In altri reparti dell’ospedale un paziente può entrare per altre ragioni e poi si scopre che è Covid positivo». Anche Simone si toglie un sassolino dalla scarpa:«Spero – conclude – che alla fine tutte le persone che oggi ci chiamano eroi continueranno a trattarci con rispetto, evitando di sfogare contro di noi la rabbia per il sistema sanitario non sempre efficiente».
Un filo diretto con possibili Covid positivi ce l’ha anche Luca Franzè che in questi giorni è in prima linea su due fronti: come infermiere nella centrale operativa provinciale Suem 118 e come sindaco di Bressanvido. «Rispondo alle chiamate del 118 o esco con i mezzi di soccorso, dipende dai turni – spiega -. Le telefonate sono aumentate esponenzialmente. Ci sono le Covid, ma le richieste standard rimangono. L’azienda Ulss 8 si è attrezzata in maniera puntuale e repentina, è stata fin da subito pronta ad affrontare l’emergenza. Dall’altra parte della cornetta trovo persone a volte spaventate ma cordiali, in merito al Coronavirus chiedono soprattutto informazioni (ricordiamo che per info specifiche sul Covid-19 bisogna chiamare l’800.277.067 per l’Ulss 8 e l’800.938.800 per l’Ulss 7). Ci vuole grande professionalità perché appena termina una telefonata ne arriva subito un’altra e si apre un mondo nuovo con specifiche necessità a cui dobbiamo e sappiamo dare risposta». Che cosa deve fare un buon sindaco per la sua comunità in questo periodo d’emergenza? «Il sindaco, tra i suoi compiti, riveste anche quello di autorità sanitaria, quindi è importante informare i propri concittadini con precisione e rigore – risponde Franzè -. Far conoscere loro i provvedimenti che si avvicendano con ritmo serrato, fare in modo che siano in grado di tutelare se stessi e gli altri. Quotidianamente rispondo direttamente alle loro domande al telefono, via facebook, mail e whatsapp. Essere presente e dare risposte puntuali fa parte del mio mandato nonostante questi giorni faticosi».