Influencer per i consumatori o produttori di valori che non si consumino?

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Influencer, consumatori e produttori
Influencer, consumatori e produttori

(Articolo su influencer per consumatori o produttori da VicenzaPiù Viva n. 11sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).

Una “nativa digitale” vicentina punta sui messaggi dei coetanei Pietro Morello e Andrea Caschetto: “La felicità è una scelta naturale”, “Faccio viaggi per essere figlio delle etnie e padre dei sorrisi”.

«Influenza: malattia provocata da un virus […], molto contagiosa data la facilità di trasmissione» – Ministero della Salute.
«Influencer: personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguìto dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico» – Treccani.
Che il vettore sia un virus oppure un social media il risultato rimane il medesimo: il contagio.
Ed anche il rischio forse è lo stesso: l’assottigliamento delle difese, immunitarie o intellettive che siano.
È così che se i primi anni duemila ci avevano abituati al T9 ed agli ancestrali progenitori dei touchscreen, varcato l’anno decimo del secolo corrente abbiamo assistito alla genesi di nuove forme di comunicazione, più rapide ed immediate anche del già titolato Facebook ed alla nascita di nuovi profili lavorativi rivelatisi ben presto piuttosto redditizi.
Il nostro vocabolario si è arricchito di termini inusitati – influencer, social media manager, content creator, meta data (solo per citarne alcuni) – che ci hanno indotto all’omologazione e condotto ad una globalizzazione tecnologica-comunicativa del pensiero.
Parole che sono divenute di uso quotidiano e stili di vita che in parte si sono modificati: i like su una storia pubblicata su Instagram sul gradimento della degustazione di una pizza o sull’ammirazione della bellezza di un luogo visitato diventano la conferma che «Allora piace davvero, mi trovo nel posto giusto».

Influencer, consumatori e produttori
Influencer, consumatori e produttori

Peccato che a questo non sempre corrisponda una risposta positiva alla domanda «Ma a me piace davvero?». E per i ‘no like’ il discorso è lo stesso, ma al contrario: a me potrebbe piacere quello che ad altri non piace e che con un indice in alto o in basso (ci vuole un attimo per cliccare) decretano la vita o la morte di un servizio o di un prodotto come ai tempi dell’antica Roma si faceva per i gladiatori. Sorge, allora, spontaneo un interrogativo: «Sono probabilmente anch’io vittima dei nostri tempi e della smania compulsiva di aggiungere post e like o dislike?».
Se è vero che per i Millenials (nati tra gli anni Ottanta e la metà dei Novanta) risulta in parte più semplice controllare questa frenesia di pubblicazione avendo vissuto una giovinezza di certo più povera di tecnologia, per la generazione che li ha succeduti (quella dei famosi Nativi digitali di cui faccio parte) è pratica quotidiana quella di affidare ad una storia di pochi secondi, cancellata su Tik Tok dopo solo 24 ore, gli spaccati del proprio vissuto.
E per divenire ‘bestie da social’ non servono né vocazione, né coltivata esperienza; non servono nemmeno i titoli, quelli utili ad esempio per affacciarsi al mondo del lavoro, ma hashtag acchiappa consensi ed ambite location dove pubblicizzare i prodotti di aziende che decidono di puntare sui giovani e sul loro ampio bacino di seguaci (eccoli i consumatori ‘nativi’ irretiti in pochi secondi dalla rete invece che dalla tv, dalla radio e dalla stampa che, anche loro, devono convincere i predecessori ma, almeno, con tempi più lunghi di attenzione e reazione e, soprattutto, senza l’interazione ‘uno a uno’ del web).
Tutto ciò quanto costa in termini economici ma soprattutto intellettivi?
Posto che dalle pubblicità di questi ragazzi sorgano eccellenti promozioni e cospicui introiti (in primis per loro stessi), quanto pesa realmente alla società aver soggiogato il loro acume e la loro crescita umana alle futili regole di un grottesco dedalo macroeconomico?
Ciò che occorrerebbe iniziare a fare – e si auspica almeno a prendere in considerazione – è infondere nei giovani (e io ho meno di trent’anni, navigo abitualmente, anche per lavoro, ma non sono ancora posseduta dalla rete) il desiderio di promuovere associazioni di volontariato come ‘produttori’ di valori, da misurarsi non sul piano economico, bensì su quello etico.

Andrea Caschetto
Andrea Caschetto

Nello scenario del web potrebbero, quindi, nascere influencer volontari, promoter di ideali autentici, probabilmente nemmeno inarrivabili ma da ricercare e riscoprire.
Utopia? Ma lasciate sognare i giovani, almeno quelli come me. Giovani ad oggi sicuramente rari perché numericamente esigui ma moralmente fondamentali.
Ne è un fulgido esempio Pietro Morello che, oltre ad uno smodato talento musicale, è stato insignito del prestigioso premio per la Pace ed i Diritti Umani La Pira grazie al suo costante impegno in missioni umanitarie per la tutela dei diritti dell’infanzia e nei reparti oncologici pediatrici dove porta la sua musica e da cui ha tratto insegnamento per coniare il suo motto «La felicità è una scelta naturale».
O Andrea Caschetto, ragazzo che, in seguito all’intervento per l’asportazione di un tumore al cervello ed alla conseguente perdita della memoria, decise di partire per l’Africa facendo al suo ritorno una singolare scoperta: si ricordava tutti i volti dei bambini incontrati. Da qui una serie di ricerche che lo condussero a scoprire quanto i sentimenti giocassero un ruolo fondamentale nella memorizzazione: iniziò, così, ad immagazzinare immagini, visi ed emozioni fino a giungere a laurearsi e ad ottenere un master. La sua attuale promozione social è un invito ad apprendere con il cuore, proprio come nel suo caso, prima ancora che con la mente. Incontrare occhi talvolta colmi della disperazione più profonda ma pieni di valori. Accogliere volti e vite. Uscire dai confini dell’ordinario apportando un prezioso contributo a storie di straordinario spessore: «Faccio viaggi per
essere figlio delle etnie e padre dei sorrisi. Non sono un turista, ma un viaggiatore. Nella mia pagina raccolgo i progetti di crowdfunding e le raccolte fondi che ho organizzato o supportato su Produzioni dal Basso per portare il sorriso a tanti bambini meno fortunati di noi».
Però come comunicare con questi giovani potenziali ‘influencer del Bello’?
Come instillare nelle nuove generazioni il ‘senso del bello’, quella primigenia forza che accomuna, unisce, determina crescita collettiva?
Come comunicare con loro in un mondo in cui siamo sommersi da social che ci fanno (sembrare di) comunicare con chiunque anche quando nessuno ci ascolta ed essere lontani da chi è seduto all’altro lato del tavolo?

Pietro Morello
Pietro Morello

Anzitutto sarebbe necessario scendere nel loro campo- a passi costanti, certi e ponderati – anziché condannarlo e dall’interno stimolare i ragazzi con valori e non per soldi.
Bisognerebbe ‘infiltrarsi’ e non condannare da fuori per cercare di capire quali siano i desideri che muovono un’intera generazione che ha visto innumerevoli cambiamenti in una manciata di anni, equilibri geopolitici mutare radicalmente, il dilagare di episodi di inciviltà spesso rimasti impuniti, divenendo testimone di un’affannosa corsa contro il tempo e la brevità. ‘Occorrerebbe insegnare la bellezza ai bambini ed ai ragazzi’ – come ha ricordato il professore e cantautore Roberto Vecchioni – «Avere dentro di sé il senso del bello significherà un giorno avere delle difese, essere liberi».
Promuovere la tanto acclamata ‘beltà’: quella che si ribella alle imposizioni e che nasce dalla semplicità, dalla cooperazione, da episodi di collaborazione che apportano un prezioso contributo al mondo… una goccia in più per cambiare il peso del mare.
Ed in un mare di giovani e stimoli tecnologici, minati dal pericoloso riduzionismo dell’informazione a cui i social ci hanno sottoposto, come entrare nel territorio dove coltivano desideri e paure?
Come ricordare a questi ragazzi troppo spesso etichettati quali cinici e vittime di attacchi di panico che la rivoluzione non ha solo bisogno di tempo ma anche di persone che abbiano il coraggio di condurla?
Riconoscendoli iniziatori e fautori delle battaglie sull’ecologia e sulla parità di genere, sostenendo e favorendo il loro operato servendosi dei linguaggi di cui la loro generazione è divenuta esponente: contenuti grafici e video, servizi fotografici, podcast, ecc.
Servirsi di questi ultimi come di un prologo che anticipi una conversazione in cui la parola  non sia l’unico elemento propulsore del dibattito. Accogliere il linguaggio polimorfo dei ragazzi ponendosi dalla parte dell’ascolto e dall’altra parte della paura. Perché il timore allontana così come il dolore esclusivo, mentre la condivisione unisce ed aiuta a tenere allacciate le scarpe della vita, a camminare assieme con l’ombra di qualcuno a precedere i nostri passi.
‘Ascoltare’ perché sentire’ è solo percepire con le orecchie. ‘Ascoltare’ è, invece, accogliere e proteggere nel cuore. Ci sono storie che richiedono tempo di ascolto e spazio per la riflessione. Ci sono vicende che hanno bisogno di tempo per essere raccontate, a volte persino più lungo di quello impiegato per viverle.
Ed il mutuo contatto coi giovani, da cui potranno muovere rivoluzioni inedite e pacifiste,  dovrà servirsi dell’ascolto come mezzo di accoglienza e dell’arte, istintiva ed immediata
forma di espressione, quale strumento comunicativo.
L’arte, così vicina al senso del Bello e di facile veicolazione tramite i social. L’ascolto, così lontano da un’incauta e preventiva condanna del diverso e così vicino a quanto ciascuno di noi desidererebbe trovare e ricevere.
Due chiavi per una sola porta comune: quella che si apre ad un mondo a cui tutti ambiamo, ricco di valori autentici. Che tutti dovremmo ‘consumare’ perché non si consumino mai.