L’Associazione “Ricerca Felicità” il 26 maggio ha pubblicato una serie di dati molto interessanti, ottenuti con misurazioni oggettive, inerenti allo stato di felicità e benessere dei lavoratori e delle lavoratrici italiane, il cui risultato mette in evidenza una curiosa tendenza delle persone del sud Italia a dichiararsi più felici e soddisfatte del proprio impiego rispetto alle persone di altre zone del nostro Paese.
Nella batteria di domande sottoposte ad un campione differenziato per fasce d’età, genere e tipologia di lavoro svolto figurano quesiti come: «Quando lavoro mi appassiono tanto da dimenticare tutto il resto?», «Sento un forte senso di appartenenza alla mia organizzazione?», «I miei meriti vengono riconosciuti?».
Il risultato della ricerca, poi, è ancora più interessante se il dato inerente al sud Italia viene confrontato con quello della felicità percepita dai lavoratori e dalle lavoratrici del ricco e produttivo nord-est, i quali, stando alle parole di Sandro Formica, Vice Presidente e Direttore scientifico dell’Associazione, sembrerebbero “in sofferenza” rispetto ai loro connazionali meridionali nell’approccio al lavoro, il che, ovviamente, non vuol dire che non lo svolgano correttamente ed efficacemente, ma che, eventualmente, tutta questa abnegazione ed etica del lavoro che caratterizzerebbe la gente del nord-est, erede diretta dell’etica protestante, che avrebbe generato lo spirito del capitalismo, non sarebbe corroborata dai dati.
Abbiamo così raccolto l’appello della cofondatrice dell’Associazione Ricerca Felicità, Elga Corricelli, la quale afferma «Quest’analisi ci ha stupito e interrogato perché ha messo in evidenza come la presunta correlazione tra felicità e produttività non sia stabile nelle regioni italiane del nord-est. Oggettivamente parlando si tratta di regioni con un alto tasso di produttività, che tuttavia non si sentono pienamente appagati sul lavoro. Sarebbe molto interessante approfondire questo aspetto per comprenderne le ragioni di fondo».
Ora, la nostra reazione non è affatto di stupore nel vedere il tasso di produttività sganciato finalmente da quello della felicità, anzi il fatto che la felicità derivi dalla continua e incessante rincorsa alla produzione, da questa es-crescenza della produttività, come la chiama il filosofo Serge Latouche[1], è una barzelletta che per molto tempo ci siamo raccontati, alimentando un circolo vizioso narrativo teso all’auto-avveramento di una profezia economicistica che ha riempito le tasche di alcuni sfrontati imprenditori e di cui possiamo, francamente, anche definitivamente sbarazzarci.
Finalmente questa indagine mette in luce un nervo scoperto dell’economia in relazione al peso che la produttività riveste nella vita dei soggetti al fine di definire un certo grado di benessere all’interno della società.
È da tempo, infatti, che, sia dal lontano Oriente buddhista sia da istanze filosofiche ed economiche interne alla nostra vecchia Europa, giunge l’appello ad abbandonare i parametri del Prodotto Interno Lordo (PIL) al fine di documentare il grado di benessere delle nostre società occidentali per cominciare a tracciare un quadro della felicità percepita realmente dalle donne e dagli uomini. Si tratta di provare a stabilire altri criteri, altrettanto oggettivi, che si riferiscano ad indagini condotte direttamente sulle singole persone, sulla loro qualità della vita, sulla disponibilità di tempo da investire in modo eticamente rilevante in modo da dare senso e pienezza ad un’esistenza percepita sempre più precaria mediante la condivisione di valori positivi.
Il metodo della ricerca, che mette le persone al primo posto, ci suggerisce, infatti, di abbandonare farlocche rappresentazioni della realtà fondate su parametri macroeconomici che misurano il valore dei beni e dei servizi prodotti in uno Stato, criteri che pretendono di determinare, addirittura, il livello di sviluppo e di progresso di un paese.
Da diverso tempo, infatti, alcuni paesi, di quelli che un tempo definivamo del Terzo Mondo, ma che poi abbiamo cominciato a definire “in via di sviluppo”, hanno sfidato coraggiosamente le logiche dell’economia di mercato, del turbocapitalismo, che ideologicamente pretende che la crescita sia infinita, producendo di conseguenza forti sperequazioni tra le persone sempre più ricche, quelle che fanno il PIL, e le persone sempre più povere, escluse da ogni indagine empirica e da ogni diritto sociale. Questi paesi, come il Bangladesh della Grameen Bank di Mohammad Yunus[2], premio Nobel per la pace nel 2006, hanno cominciato ad attivare modalità per far crescere realmente il benessere di tutta la popolazione concedendo microcrediti a donne e uomini troppo poveri e senza garanzie per ottenere prestiti dai colossi bancari oppure, come fa il piccolo stato del Bhutan nell’Asia centrale, a disfarsi dell’ossessione del PIL per fare spazio al FIL, un criterio che misura la Felicità Interna Lorda attraverso l’attenzione alla qualità dell’aria, al livello della salute dei cittadini, all’accesso all’istruzione e, infine, alla ricchezza dei rapporti sociali.
È chiaro, dunque, che l’indagine dell’Associazione “Ricerca Felicità”, alla quale auguriamo di continuare a fornirci dati da poter interpretare sociologicamente ed eticamente, impone una totale ridefinizione dei concetti di benessere e di felicità, una risemantizzazione che passa anche attraverso la revisione dei bisogni fondamentali dell’uomo e della donna nel vivere pienamente il tempo del lavoro nella sua correlazione con il tempo del non-lavoro, quello veramente libero.
Noi riteniamo che su questi aspetti di carattere antropologico il filosofo, con la sua attenzione agli aspetti umanizzanti, valoriali ed etici dell’esistenza, non possa rimanere escluso dal dibattito sulle prospettive economiche del mondo in costruzione, lasciando che qualcuno possa permettersi di sacrificare uomini e donne sull’altare del mito della crescita e del benessere…..di pochi privilegiati.
[1] Cfr. S. Latouche, D. Harpagès, Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice, Elèuthera, Milano 2011.
[2] Cfr. M. Yunus, Un mondo senza povertà, Feltrinelli, Milano 2010; Id., Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 2015.
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a cura di Michele Lucivero
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