Interessi tra swap, prestiti, bond: così a Roma è eterno anche il debito. Ma il fenomeno tocca altri comuni indebitati

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Il vortice degli interessi sul debito
Il vortice degli interessi sul debito

Accettare un finanziamento che costa in interessi quasi il doppio del capitale è una scelta impegnativa: così inizia l’articolo de Il Sole 24 Ore che vi proponiamo a firma di Gianni Trovati che focalizza l’attenzione sulla capitale ma che è valido anche per comprendere il peso degli interessi sull’indebitamento di tanti comuni italiani “in sofferenza” come lo stesso Trovati scrive nel suo secondo articolo che è riportato in fondo.

Il Campidoglio l’ha fatta (la scelta, ndr) nel 2004, quando ha lanciato il maxi-bond “City of Rome” da 1,4 miliardi che per essere ripagato ne chiede 3,6. È andata un po’ meglio al commissario straordinario al debito di Roma tra 2011 e 2014, quando ha chiesto allo Stato di anticipare 3,5 miliardi di contributi per ottenere subito i soldi che la legge avrebbe garantito in sette anni. La restituzione in questo caso gonfia il conto fino a 5,5 miliardi. Quindi gli interessi valgono “solo” il 69 per cento.

Ci sono queste e altre mosse a rendere Roma la «Città Eterna» anche dal punto di vista dei debiti. Mosse che creano debito nuovo per pagare il debito vecchio.

Il lievito

Il problema non è solo romano. Ma come spesso le accade, la Capitale sa replicare in forma concentrata vizi strutturali del Paese. Il meccanismo dei debiti che creano debiti è descritto nelle relazioni tecniche arrivate al Tesoro per cercare la soluzione e consultate dal Sole 24 Ore. In quelle carte si scioglie il mistero: com’è possibile che dopo 10 anni di vita la «gestione straordinaria», cioè la bad company creata dal governo Berlusconi per gestire le eredità contabili pre-28 aprile 2008 ed evitare il dissesto del Campidoglio, abbia ancora sulle spalle 12,1 miliardi di debiti? Semplice: a Roma la «massa passiva» non è inerte ma vive. E mentre i pagamenti la riducono gli interessi la gonfiano. Perché le entrate sono un’urgenza di oggi, e gli interessi un problema di domani. Non solo: gran parte degli anticipi dallo Stato, 2,5 miliardi su 3,5, sono stati girati al Comune in un complicato dare-avere che ha caricato poste aggiuntive sulle spalle del commissario. L’agenda tutta concentrata sul breve termine è confermata anche da due derivati (circa 350 milioni di sottostante) firmati dal Campidoglio nel 2007, che hanno sostituito vecchi mutui a tasso fisso con un meccanismo «step up». «Step up» perché aumenta i tassi, dal 4% dei primi anni fino a valori fra il 6,3 e il 6,7%. Ma su altri mutui lo stesso lievito porta sopra il 9% interessi che all’inizio non superavano il 2%. Risultato: su 490 milioni di capitale ancora da pagare ci sono 714 milioni di interessi. Mentre fuori dal Campidoglio la crisi scoppiata nel 2007-8 ha azzerato i tassi.

Il passaggio allo Stato

Così la gestione commissariale, seppur «straordinaria», è stata pensata a suo tempo senza data di scadenza, insieme ai contributi statali e alla super-addizionale al 9 per mille (sopra il tetto nazionale all’8 per mille) e alla tassa di un euro chiesta a chi sale su un aereo a Fiumicino e Ciampino. Eterne anche loro. Come tutto in città.

La questione è tornata di attualità per la norma, inserita nel decreto crescita ancora in complicata gestazione, che creerebbe le condizioni per chiudere la partita in tre anni. La soluzione-ponte ha subito acceso una nuova polemica fra Lega e M5S. Perché il Campidoglio fa gola. La Lega ci punta, i Cinque Stelle si difendono. Per Roma «il governo sta facendo di tutto – dice il leader del Carroccio Salvini -, l’unica cosa che non potrà fare è regalare soldi a una città ignorando le altre. Qui serve un’amministrazione pronta, sveglia e presente». «Ha ragione Salvini – ribatte la viceministro all’Economia Laura Castelli -, molti Comuni hanno seri problemi perché gestioni politiche irresponsabili li hanno ridotti a colabrodo». E sul debito romano Castelli vuole «tranquillizzare il collega di governo, nessun nuovo onere sarà posto a carico degli italiani». Ma Salvini ributta la palla nel campo M5S: «Roma non è mai stata così sporca, ferma, caotica e disorganizzata. Colpa di Salvini o di un sindaco 5Stelle che non ha combinato niente»?. Immediata la replica di Virginia Raggi: «Si occupi della sicurezza, mi pare che il lavoro non manchi».

La battaglia politica intorno al Campidoglio circonda la norma del decreto crescita, che dividerebbe in due i vecchi debiti: la parte più consistente tornerebbe al Campidoglio, insieme agli attivi già nei conti del commissario e necessari a garantire gli equilibri. Il bond del 2004, che paga un interesse del 5,345% e prevede il rimborso del capitale in soluzione unica alla scadenza il 27 gennaio 2048, finirebbe allo Stato, previa adesione dei sottoscrittori. Il passaggio non scaricherebbe nuovo debito di Roma su tutti gli italiani. Ma per la semplice ragione che quel debito è già in carico agli italiani, con i 9 miliardi garantiti dal decreto Berlusconi del 2010 in comode rate da 300 milioni l’anno. Quel che rimane del contributo tornerebbe al Tesoro con il debito da ripagare.

Il fallimento del curatore

A studiare la soluzione che chiude la gestione straordinaria è stato lo stesso commissario al debito. Il curioso caso di una struttura pubblica che crea le condizioni per sparire si spiega con i numeri scritti nelle carte in mano al Tesoro. Oltre a produrre 2,5 miliardi di interessi, le anticipazioni chieste nel 2010 riducono gli assegni annuali spediti ora dal Mef. Oggi il commissario riceve 120 milioni invece di 300, con il risultato che dal prossimo anno non avrebbe più i fondi necessari a pagare le rate dei mutui. Un “fallimento” del curatore fallimentare sarebbe l’ennesimo inedito romano.

Basta super Irpef?

E il Comune? Ad aiutarlo a sbrogliare la matassa dei debiti che tornerebbero a casa ci sarebbe un altro unicum capitolino: il debito privo di creditore. Perché uno dei poco più di tre miliardi di debiti commerciali ancora in pancia al commissario è legato a vecchi espropri di 40, 50 o 60 anni fa, lungo una storia infinita in cui spesso si sono persi i titolari dei crediti. Altri 600 milioni sono al centro di contenziosi da almeno 12 anni, per cui anche qui la spesa ha buone probabilità di rimanere confinata nell’ambito impalpabile del «potenziale». Per ulteriori 600 milioni, il creditore è lo stesso Campidoglio, per cui il ritorno del debito si trasformerebbe in una partita di giro. Che cosa resta? Tolti i debiti fuori bilancio, restano circa 300 milioni di fatture ante-2008 ancora non pagate. Basterebbe una pulizia dei conti, insomma. E basterebbe a cancellare la super-addizionale Irpef e far rientrare Roma nei canoni dell’ordinario: almeno per il fisco locale.

Tra decreto crescita e riforma degli ordinamenti
La doppia mossa per salvare i Comuni in difficoltà

I conti locali ballano anche lontano dalla Capitale. In prima fila sul ciglio del burrone c’è oggi Reggio Calabria. La città ha costruito un piano di rientro che poggiava sulla possibilità di ripianare in 30 anni l’extra-deficit prodotto dalla cancellazione delle vecchie entrate non riscosse. Ma la norma che permetteva questo rientro lungo, e il finanziamento con anticipazioni di liquidità, è stata dichiarata illegittima dalla Consulta, perché viola la regola aurea scritta all’articolo 119 della Costituzione che permette di indebitarsi solo per investimenti e non per spesa corrente. Appena dietro nel rischio-dissesto arriva Napoli, finora salvata da una serie di interventi che le hanno permesso di andare avanti con il piano anti-dissesto anche se nelle verifiche intermedie la Corte dei conti ha ripetutamente bocciato i bilanci. Alla prossima verifica, sul consuntivo da chiudere entro fine mese, la tagliola della magistratura contabile che imporrebbe il default rischia quindi seriamente di scattare. A Catania il dissesto è arrivato a fine 2018. E anche lontano dalle grandi città, dove fa meno notizia, sono tanti gli enti in bilico.

Intorno a Reggio Calabria si è creato un caso. Nelle settimane scorse il viceministro all’Economia Laura Castelli, che ha la delega sulla finanza locale, ha scritto alla Corte dei conti per chiedere una soluzione. L’ipotesi su cui puntava anche il sindaco di Reggio era un salvagente interpretativo che evitasse il ritorno al ripiano decennale ai piani di riequilibrio già approvati. Ma la Corte non ha seguito questa strada: e con un’interpretazione vincolante la sezione Autonomie (Sole 24 Ore di ieri) ha detto che per gli esercizi finanziari ancora aperti il ripiano dell’extra-deficit va riportato all’oriiginario calendario “breve”. Per Reggio significa alzare la rata annuale da 2,5 a 11 milioni. Per il suo sindaco significa il dissesto. «A questo punto dovremo intervenire in fretta con una norma – spiega il viceministro Castelli – anche perché la decisione della Corte mette a rischio tutti i Comuni che hanno rimodulato i piani in base alle regole poi bocciate dalla Corte costituzionale». L’ipotesi è di inserire nel decreto crescita il paracadute che il governo attendeva dalla sezione Autonomie. «Ma queto inciampo – aggiunge Castelli – dimostra una volta di più l’urgenza della riforma complessiva delle regole sul dissesto, che sono state stravolte nel tempo da troppi interventi su misura di qualche amministratore». La riforma in cantiere punta a cancellare il dissesto, in linea con quanto accaduto nel privato con la riscrittura del diritto fallimentare, e il pre-dissesto, che in sette anni di vita ha finito per fossilizzare più che risolvere le crisi locali. Al testo della delega il Mef ha lavorato con il Viminale, dove a seguire il dossier è il sottosegretario della Lega Stefano Candiani, e con gli amministratori locali. E il tema tornerà mercoledì alla riunione convocata all’Economia con i sindaci dei capoluoghi delle Città metropolitane.

Gianni Trovati , da Il Sole 24 Ore