Approfittando dell’amicizia che ci lega, siamo tornati da Franco Coppoli, all’indomani della pubblicazione della sentenza che ha annullato la sanzione disciplinare a suo carico, per capire meglio qual è il significato politico, sociale e culturale che assume la decisione presa dalla corte di cassazione nel ritenere che l’affissione del crocifisso non può essere né il risultato di una delibera presa a maggioranza né, tantomeno, l’effetto di una imposizione di un dirigente scolastico.
Ovviamente, anche in questo caso, come nell’intervista sul green pass, quella presentata in queste righe non è che la minima parte del circostanziato eloquio del prof. Coppoli.
- Abbiamo sentito durante una tua intervista televisiva che hai distinto tra spazio pubblico e ufficio pubblico, in che misura, secondo te, questi due ambienti sono diversi?
Sono assolutamente diversi perché lo spazio pubblico è una piazza, un’Agorà, in cui si incontrano e si riconoscono i soggetti ed è giusto che in quello spazio siano esposti i simboli politici e religiosi. Lo spazio pubblico è quello della città, non inteso in senso virtuale, sempre più glaciale e asettico, bensì la città come relazione, come incontro, la Polis in cui devono convivere tutte le differenze. Ben diverso, invece, è un ufficio pubblico, che rappresenta lo Stato, e lo Stato deve essere laico, dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, che hanno sancito una cesura tra lo stato assoluto, lo stato religioso o lo stato etico e lo stato laico moderno.
In Italia dal 1984 abbiamo formalmente uno stato laico e, quindi, non è più possibile che un simbolo religioso venga imposto in maniera autoritativa: questo dice la sentenza che, ricordiamolo, ha “travolto” il provvedimento disciplinare della sospensione di un mese e costituisce un importante passo avanti nella questione della laicità dello Stato, mentre la Corte non è stata coraggiosa sulla questione della discriminazione. Sulla laicità, infatti, le parole della Cassazione sono chiarissime, le sezioni unite affermano che «L’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unita della nazione per il fascismo; ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita», e aggiunge «L’ostensione obbligatoria nella scuola pubblica (…) è quindi incompatibile con la indispensabile distinzione degli ordini dello Stato e delle confessioni. La presenza obbligatoria del simbolo religioso si traduce in una sorta di identificazione della statualità con uno specifico credo: si comunica e si realizza una identificazione tra Stato e contenuti di fede, cosi incidendosi su uno degli aspetti più intimi della coscienza. II crocifisso di Stato nelle scuole pubbliche entra in conflitto anche con un altro corollario della laicità: l’imparzialità e l’equidistanza che devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni, indipendentemente da valutazioni di carattere numerico, non essendo più consentita una discriminazione basata sul maggiore o minore numero degli appartenenti all’una o all’altra di esse. Ed entra in conflitto con il pluralismo religioso come aspetto di un più ampio pluralismo dei valori: lo spazio pubblico non può essere occupato da una sola fede religiosa, ancorché maggioritaria»[1]
Per questi motivi la corte ha finalmente sancito l’incompatibilità dell’imposizione autoritativa del crocifisso nell’aula scolastica, perché altrimenti si creerebbe un’associazione, un’identificazione scorretta tra lo Stato, i principi costituzionali e una religione particolare, soprattutto in un ufficio pubblico particolare quale è un’aula scolastica, dove si fa un lavoro educativo che è fondamentale per la costruzione di una società inclusiva e interculturale.
- Secondo te, che tipo di influenza può esercitare sugli alunni e sulle alunne la presenza di un crocifisso costantemente davanti ai loro occhi?
L’obiettivo evidente è che la presenza del simbolo religioso posto sopra la testa dei docenti deve naturalizzare, universalizzare qualcosa che è assolutamente di parte. La Chiesa cattolica è sempre intervenuta indebitamente e in maniera deleteria nel settore dell’istruzione, infatti storicamente l’Italia è un paese di analfabeti. Al contrario, in Germania, dove dal XVI secolo la Riforma protestante ha favorito la traduzione in volgare della Bibbia, s’innesca un meccanismo di autogestione nella lettura diretta del testo sacro, che è risultata funzionale all’alfabetizzazione.
In Italia la Chiesa ha sempre avuto il monopolio dell’interpretazione della Scrittura, ma anche dei processi educativi, rimasti privilegio di una ristretta élite, per cui chi associa il crocifisso alla tradizione sta utilizzando la logica dell’invenzione della tradizione di Benedict Anderson[2] e manifesta solo una profonda ignoranza strumentale.
Vorrei ricordare che Roma diventa capitale nel 1870 con la breccia di Porta Pia, quando si pone militarmente fine all’esistenza dello Stato pontificio; dal 1870 agli anni ‘20 non ci sono rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, ma il 20 novembre 1922 già solo qualche settimana dopo la marcia su Roma, con il primo governo Mussolini viene diffusa la circolare n. 68 in cui si parla di «restituzione del crocifisso» alle aule e successivamente due regi regolamenti, del 1924 e del 1926, impongono l’immagine del crocifisso e quella del re d’Italia nelle aule scolastiche. L’11 febbraio 1929 arriva poi l’accordo strutturale tra regime fascista e Chiesa cattolica: sono Mussolini, l’uomo della provvidenza, e il fascismo a dare l’avvio alla tradizione del crocefisso nelle aule e nei tribunali in Italia, per questo oggi parlare di tradizione del crocifisso nelle aule scolastico è davvero ridicolo.
Non si tratta di un simbolo legittimamente appeso al collo di un ragazzo o di una ragazza, ma di un simbolo imposto nel luogo di massima esposizione simbolica, sopra la testa dell’insegnante, per cui il crocifisso allude ad una tradizione inesistente o di matrice fascista, a un’operazione politica (come l’accordo tra Stato fascista e Vaticano) non neutrale e rappresenta spesso la marcatura di un territorio con valenza non inclusiva, se non proprio escludente, rispetto alle differenze e alle molteplici visioni del mondo che abitano le nostre classi.
- Qual è il tuo modello di gestione del pluralismo culturale e religioso attuale da parte dello Stato?
Io penso che il più grande errore fatto nel dopoguerra sia stato quello dell’art. 7 della Costituzione, cioè accettare la validità dei Patti lateranensi del 1929. È stato un accordo politico tra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana, un accordo funzionale agli interessi di quei due partiti, ma poco attento ai diritti civili nel nostro paese. Io ritengo che la sentenza delle sezioni unite imponga una soluzione nella gestione del simbolo definitiva per quanto riguarda il fatto che nessun dirigente può imporre alcun simbolo. Al tempo stesso oscilla tra la cosiddetta “soluzione barocca”, che prevede l’affissione al muro di tanti i simboli religiosi o laici, e quella “bavarese”, che invece prevede il coinvolgimento dal basso della comunità scolastica, mentre rischia di determinarsi nelle nostre scuole una soluzione di tipo “balcanico”.
Entrambe le soluzioni presentate entrano in contrasto con il principio di laicità e sarebbe il caso di liberare le aule da ogni simbolo religioso, invece di proporre sui muri una collezione di figurine, che rischia di piegarsi a logiche e pratiche escludenti, di marcatura territoriale, discriminatorie verso le tante minoranze religiose, di razza, di genere che attraversano le nostre scuole. La Corte propone un “accomodamento” dal basso che esclude il criterio quantitativo legato alla maggioranza, giacché come accennava Tocqueville «la democrazia non può essere la dittatura delle maggioranze», ma a ben vedere non risolve il problema concretamente perché l’esposizione di tutti i simboli religiosi, culturali e politici possibili rischia di aprire la strada della balcanizzazione e con le classi e con il clima politico-cultuale attuale, fomentato anche da una diffusa e distorta infodemia.
La soluzione più corretta sarebbe stata quella francese, cioè, rispettando il principio di laicità dello Stato, evitare nelle aule e negli uffici pubblici l’esposizione di qualsiasi simbolo religioso. Ricordiamoci che in ogni classe c’è un insegnante di regione cattolica che viene scelto dal vescovo e pagato dallo Stato: io ritengo che la maggioranza di questi docenti sia abbastanza corretta, ma ricordiamoci che sono designati dall’ufficio pastorale vescovile, con scarsissima autonomia rispetto al datore di lavoro e, quindi, potenzialmente in ogni classe potrebbe essere anche innescato un dispositivo per condizionare o torcere le posizioni degli adolescenti.
- Infine, una domanda un po’ scomoda, ma tocca ai filosofi fare domande scomode per capire meglio: quella che tu ritieni essere una battaglia di civiltà vuole essere una battaglia contro la religione tout court?
Assolutamente no, è una battaglia ecologica, di ecologia della mente per parafrasare Gregory Bateson[3], per un ambiente educativo libero e aperto contro i privilegi inaccettabili della religione.
Insomma, in Italia fino al 1984 la religione cattolica è stata religione di Stato grazie allo Statuto albertino e poi ai Patti lateranensi. Quando parlo di battaglie di civiltà, essendo un lavoratore della scuola pubblica, ritengo che questi simboli, come ha ribadito tra l’altro la sentenza, non siano compatibili con la pratica didattica e la laicità dello Stato. Non si tratta di scrocifiggere le piazze o i luoghi privati, ma eliminare i troppi privilegi (simbolici, come questo, ma anche quelli fiscali o giuridici) che riservano alla Chiesa cattolica uno status particolare. È una battaglia per la libertà di tutti, per creare spazi inclusivi, non per imporre qualcosa: io non voglio imporre la mia simbologia, ce l’ho, è ben chiara, ma io non ho mai pensato di imporre i simboli o le persone a cui faccio riferimento agli studenti e alle studentesse della mia classe, sarebbe scorrettissimo a livello didattico e etico e contrario allo sviluppo del pensiero critico in una scuola di tutti e tutte.
[1] Sentenza Corte di cassazione n. 24414 del 9/09/2021, pp. 30-31.
[2] B. Anderson, Comunità immaginate, Laterza, Roma-Bari 2018.
[3] G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977.
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a cura di Michele Lucivero
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